Il secondo volume di “Buongiorno Sardegna” – intitolato “Dove siamo” – tratta delle cause che, secondo Giuseppi Dei Nur, hanno determinato il fallimento della politica di rinascita dell’isola attuata nel dopoguerra. Lo fa alla sua maniera, con largo impiego di metafore e di uno stile narrativo che, se utile ad épater le bourgeois, non è certo appropriato per spiegare correttamente al popolo di Entropia (ossia della Sardegna) le condizioni esistenziali nelle quali attualmente versa, al fine di motivarlo ad accogliere ciò che viene proposto nel successivo volume, il terzo, “Dove possiamo andare”.
La serietà del problema trattato consiglia perciò di sorvolare sui numerosi e ricorrenti voli pindarici, per andare direttamente al sodo delle argomentazioni svolte da Giuseppi Dei Nur contro la politica economica attuata: una politica di intervento, questa, che anziché favorire la crescita e lo sviluppo dell’isola, ne ha invece determinato una totale dipendenza dall’esterno.
L’automatismo che avrebbe originato la perdita di autonomia economica e politica della Sardegna sarebbe stato attivato dai trasferimenti pubblici: le forme d’impiego di questi ultimi avrebbero originato un generalizzato disordine nel sistema sociale dei sardi, dovuto all’assuefazione alla dipendenza, rinforzata dalla continua pratica dell’assistenzialismo che le disfunzioni di quelle forme avrebbero comportato.
Le disfunzioni si sarebbero verificate perché sarebbe rimasto inascoltato ciò che aveva avuto modo di prospettare uno “scienziato dell’economia di origini locali”: Questi, attraverso il ricorso alla metafora della “pentola bucata”, avrebbe reso comprensibile “a molti di comune buon senso ma non ai Vertici Competenti di turno” le cause reali della logica eversiva, sottostante le forme d’impiego dei trasferimenti pubblici nei confronti dell’autonomia dei sardi.
Col ricorso alla metafora della “pentola bucata” lo “scienziato locale” avrebbe chiarito perché, per quanto con i trasferimenti si continuasse ad immettere liquido dall’esterno, senza qualcosa con cui tappare i buchi il liquido si sarebbe disperso. In realtà, si tratta di una spiegazione che si limita a dire, in termini diversi, ciò che altri sostenevano sin dall’origine dell’adozione dell’ipotesi di “industrializzazione forte” della Sardegna: mancando i trasferimenti pubblici d’essere investiti in modo diversificato in comparti produttivi di beni consumabili dai sardi o esportabili, le attività ad alto rapporto capitale/prodotto (le famose “cattedrali nel deserto”) avrebbero contribuito ad elevare solo il reddito disponibile, ma non anche il reddito prodotto.
Ciò avrebbe inevitabilmente comportato che il reddito regionale disponibile fosse distribuito prevalentemente attraverso i salari pagati alla forza lavoro occupata nelle attività produttive cosiddette “pesanti”, per cui crescendo la capacità di spendere degli abitanti di Entropia senza poter indirizzare la loro domanda verso beni prodotti almeno in parte in Sardegna, era giocoforza che i beni consumati fossero tutti importati.
Per tale via sono stati solo promossi una crescita ed uno sviluppo fittizi, perché le forme d’investimento assunte dai trasferimenti sono risultate estranee “alla cultura e alle tradizioni del luogo”, senza poter generare “come promesso le condizioni perché si sviluppassero a valle piccole e medie imprese locali, si diffondessero cultura imprenditoriale e capacità tecnica, tecnologica, commerciale, finanziaria e manageriale”.
Giusto. In tutto questo processo c’è stato tuttavia un ma che, a ben considerare, indurrebbe a rinvenire le cause della dipendenza dei sardi non tanto nel modo in cui sono stati utilizzati i trasferimenti pubblici, quanto nel “virus dell’invidia” che ha “colpito sin dall’antichità tutta la popolazione del paese chiamato Entropia”.
L’invidia, producendo rancore ed odio nel popolo dei sardi verso coloro che il processo di crescita e sviluppo fittizio avviato con i trasferimenti esterni beneficiava (consentendo loro il privilegio di avere di più senza merito), rendeva impossibile che le disuguaglianze fossero mitigate “dalla solidarietà doverosa” da parte di chi era stato gratificato dalla distribuzione del maggior reddito.
Bel modo di ragionare quello di Giuseppi Dei Nur. Dopo aver respinto la validità dei trasferimenti, in quanto causa d’assuefazione alla dipendenza dall’esterno, mostra ora una propensione a giustificare quella connessa alla pratica di attività caritatevoli da parte di chi, nella lotteria del processo distributivo, ha avuto di più a svantaggio di chi ha avuto di meno, o al limite non ha avuto nulla.
E’ questo un aspetto importante che merita d’essere approfondito, perché consente una giustificazione più esaustiva della dipendenza economica e politica della Sardegna, conseguente agli esiti del modo in cui sono stati utilizzati i trasferimenti affluiti nell’isola per tanti anni. Giuseppi Dei Nur, mancando forse di affidarsi alla consulenza di veri esperti, non ha considerato correttamente le condizioni che potrebbero fare dell’invidia un potente fattore in grado di influenzare positivamente, attraverso la dinamica sociale, la rimozione delle disfunzioni connesse all’attuazione di una politica economica che crea dipendenza piuttosto che crescita e sviluppo. L’invidia, infatti, anziché costituire un elemento negativo, potrebbe costituire invece un elemento positivo nell’orientare una dinamica sociale ordinata, strumentale all’attivazione di un processo di crescita e di sviluppo endogeni.
E’ infatti improbabile che un contesto sociale bene ordinato sul piano dell’equità distributiva dia origine a motivazioni di invidia, sia perché le disuguaglianze sarebbero relativamente piccole, sia perché è fondato aspettarsi che i cittadini svantaggiati accettino le disuguaglianze con maggiore facilità quando sono consapevoli che esse si tradurranno prima o poi anche a loro vantaggio.
La sussistenza di una motivazione positiva dell’invidia è però giustificabile alla sola condizione che essa sia non solo orientata a salvaguardare l’autostima dei cittadini, come singoli e come comunità, ma anche a stimolare la creazione di una struttura istituzionale bene orientata alla crescita e allo sviluppo del contesto sociale. A tal fine diventa importante avere chiare le idee riguardo alle condizioni in presenza delle quali può stabilirsi un funzionale ed equilibrato rapporto tra struttura istituzionale, da un lato, e crescita e sviluppo del contesto sociale, dall’altro.
Nella realizzazione di questo rapporto l’equità distributiva non è altro che la percezione, da parte dei componenti il sistema sociale, della “soddisfazione” sul piano delle aspettative derivanti dalla mancata divergenza degli esiti reali del comportamento umano da quelli ideali, assunti come guida comportamentale: essa può essere di natura personale, oppure di natura politica. La distinzione è fondata sulle motivazioni soggettive che le due forme di scontentezza possono determinare.
La scontentezza personale origina la disaffezione che un soggetto matura rispetto al posto da lui occupato all’interno del contesto al quale appartiene; tale disaffezione deriva dalla avvertita percezione della differenza tra la posizione sociale ed economica nella quale il soggetto si trova all’interno del suo contesto sociale e la posizione che avverte di poter perseguire attraverso il suo diretto impegno. La scontentezza personale, perciò, spinge il soggetto ad impegnarsi nella ricerca della posizione che pensa di meritare all’interno del contesto sociale esistente, ma non ad attivarsi perché cambi la struttura istituzionale.
La scontentezza politica, per contro, concerne la struttura istituzionale; in questo caso si manifesta l’impegno del soggetto perché quest’ultima venga modificata. Ciò significa che un soggetto politicamente insoddisfatto agisce per sollevare lo scontento in altri soggetti, nella speranza che la loro crescente mobilitazione possa eventualmente provocare un cambiamento del “contenitore sociale” che li racchiude.
L’equità distributiva, mentre è largamente irrilevante ai fini della rimozione della scontentezza personale, rappresenta però la “leva” fondamentale con cui rimuovere la scontentezza politica connessa ad una distribuzione non condivisa delle opportunità economiche. Da un lato tale equità implica l’accoglimento del “principio della non-esclusione”, secondo il quale nessun soggetto può essere escluso dalle opportunità offerte dal contesto sociale di appartenenza; dall’altro lato essa implica il rispetto del “principio del merito”, secondo il quale ogni soggetto deve avere ciò che merita, valutato in funzione del suo contributo alla crescita ed allo sviluppo di tutti.
Senonché il consolidamento di pratiche distributive fondate sul privilegio affievolisce per definizione il desiderio degli “esclusi” a porre in essere comportamenti finalizzati a migliorare per vie politiche la loro posizione: la loro scontentezza, conservandosi privata, legittima la forma dell’impegno personale ai danni degli “inclusi” secondo le diverse forme che il “virus dell’invidia”, usando la terminologia di Giuseppi Dei Nur, ha consolidato nel tempo, e che in Sardegna ha motivato iniziative comportamentali individuali del tutto particolari, spesso anche a danno di rappresentanti dei “Vertici Competenti”.
Le considerazioni si qui svolte servono a sottolineare che all’interno dei contesti arretrati, com’era la Sardegna nel momento in cui ha iniziato a fruire dei trasferimenti pubblici, un reale ed effettivo processo evolutivo di crescita e sviluppo può essere sorretto solo da una crescita del reddito prodotto e non solo da quella del reddito disponibile; ciò però avrebbe implicato la totale rimozione di tutti i possibili squilibri personali di natura assistenzialistica, pena la permanenza della staticità del contesto sociale e la sua riduzione in condizione di dipendenza, come appunto è accaduto in Sardegna. L’equità distributiva, nel passaggio dei contesti sociali dall’arretratezza alla crescita ed allo sviluppo, non rappresenta dunque semplicemente una condizione a sé stante: al contrario, rappresenta la condizione in base alla quale può essere giustificato il sacrificio delle pretese ugualitarie, nella prospettiva di un reale ed effettivo processo di crescita e sviluppo coinvolgente gli sforzi di tutti. Condizione, quest’ultima, che è del tutto mancata nell’esperienza della politica di intervento attuata in Sardegna, anche per la connivenza e la complicità coi “Vertici Competenti” dell’intero suo popolo.
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