Col libro “Sette anni di vacche sobrie” Marco Magnani vuole contribuire al risveglio dell’Italia, da troppo tempo immersa in un sonno letargico dal quale stenta a riprendersi. Per riaversi dalla crisi profonda nella quale essa versa, occorrono “terapie forti nella fase acuta e terapie di lungo periodo per mantenere l’equilibrio ritrovato”: insomma, secondo Magnani occorre quella che da tempo viene chiamata “terapia dei due tempi” perchè – essendo stati già in parte sistemati i conti pubblici con la “medicina da cavallo” somministrata agli italiani negli ultimi anni di austerità – è necessario affrontare ora le riforme strutturali congiuntamente al rilancio della domanda aggregata. Considerato il punto cui si è giunti occorre cessare di preoccuparsi della crisi e occuparsi invece del dopo-crisi.
Per affrontare questo compito con l’impegno e la consapevolezza necessari secondo Magnani va tenuta a mente la forza principale che sta dietro l’evoluzione economica di un paese; servono, oltre ai “capitali”, anche dei “capitani coraggiosi non accomodanti. Anzi: spigolosi, testardi, non solo in competizione, perfino in conflitto tra loro”. In altre parole ci vogliono degli imprenditori di stampo schumpeteriano, in grado di realizzare una ”accumulazione creativa” attraverso una “creazione distruttiva”, dal momento che per un’evoluzione positiva della futura base produttiva del paese l’attività imprenditoriale deve rappresentare una discontinuità rispetto al passato.
La presenza di imprenditori innovatori dipende dal possesso dei requisiti richiesti cui prima si è fatto riferimento da parte di chi decide di intraprendere un’attività d’impresa; ma lo stimolo a svolgere tale attività, in positivo o in negativo, dipende essenzialmente dalla “natura” del contesto sociale e dalla sua organizzazione istituzionale. Questo, quando sia orientato favorevolmente verso l’attività imprenditoriale, investe direttamente la relazione che sempre intercorre, anche se in forme poco percettibili, tra contesto sociale e democratizzazione delle scelte sociali. Ma è plausibile pensare che il contesto sociale debba essere sempre orientato univocamente in senso schumpeteriano?
La relazione tra contesto sociale e democratizzazione delle scelte, come osserva Gianfranco Pasquino, solleva importanti interrogativi ai quali non sempre vengono date risposte ottimali, soprattutto se queste sono sollecitate all’interno di paesi caratterizzati da duri confronti sociali: come consentire ai cittadini di partecipare all’assunzione delle decisioni pubbliche? Ancora, come rendere possibile che le maggioranze capaci di imprimere input comportamentali agli imprenditori rispondano responsabilmente alle aspettative dei cittadini?
La risposta a questi interrogativi implica una riflessione sulla differenza esistente fra le possibili forme di democrazia. Se si considera la teoria formulata più di sessant’anni fa dall’economista austriaco Joseph Alois Schumpeter, essa può essere criticamente valutata se viene confrontata con una teoria alternativa, come per esempio quella formulata dal giurista tedesco Hans Kelsen. È noto come la teoria di Schumpeter sia tradizionalmente definita “teoria competitiva della democrazia”, in quanto assegna a quest’ultima una intrinseca natura elitaria. Per Schumpeter, infatti, il metodo democratico assicura al sistema sociale un assetto istituzionale finalizzato alla definizione delle scelte politiche, nel quale alcuni acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva per il consenso popolare.
Una delle critiche più frequentemente rivolte a questa teoria è che la presunta riduzione della democrazia a sola competizione elettorale esclude la partecipazione continuativa dei cittadini, in quanto limita l’accesso al potere decisionale ad un gruppo di persone che lo esercitano senza controllo per tutta la durata in cui restano in carica.
Un altro punto critico è che la natura elitaria della democrazia schumpeteriana è scarsamente rappresentativa; è questo un rilievo importante che legittima il richiamo alla concezione alternativa della democrazia elaborata da Kelsen in concomitanza con quella di Schumpeter.
La teoria proposta da Kelsen è l’opposto della teoria competitiva della democrazia. Nel suo nucleo costitutivo essenziale la democrazia kelseniana ha tre dimensioni che la connotano in termini esclusivi: è parlamentare, è proporzionale ed è partitica. Nella prospettiva kelseniana le élites partitiche rappresentano i loro rispettivi elettorati in Parlamento, luogo nel quale acquisiscono rappresentanza e potere in misura proporzionale ai voti ricevuti, e dove tutta la politica democratica perviene alle decisioni attraverso la contrattazione di accordi stipulati nella misura più ampia e includente possibile.
Sulla base delle osservazioni svolte consegue perciò che la concezione kelseniana della democrazia è più opportuna, rispetto alla concezione schumpeteriana, per tutti i contesti che vivono momenti difficili per via delle forti contrapposizioni sociali. E’ quanto in questi ultimi anni accade all’Italia, il cui mondo politico è costituito in maggioranza da partiti che sono molto più interessati a sopraffarsi vicendevolmente che a risolvere i mali dei cittadini. Tuttavia si può dire che le teorie della democrazia di Schumpeter e Kelsen non siano radicalmente incompatibili tra loro, poiché possono offrire la propria validità in corrispondenza di tempi diversi all’interno di uno stesso sistema politico. C’è un tempo per la democrazia competitiva schumpeteriana e un tempo per quella proporzionalistica kelseniana. La scelta tra le due forme di democrazia, per governare il contesto sociale in modo che risulti orientato a stimolare il protagonismo di imprenditori innovatori, dipende dallo stato in cui versa il sistema sociale: nel senso che quando quest’ultimo è attraversato da profonde visioni contrapposte, come capita ora in Italia, la teoria kelseniana si presenta come quella più appropriata.
La democrazia elitaria ha scarse possibilità di riuscire a legittimare senza contrasti i sacrifici richiesti per correggere strutturalmente il contesto sociale, anche se la necessità di tali sacrifici è imposta dall’urgenza di rilanciare la crescita e l’occupazione del contesto in crisi. Quanto è accaduto e sta accadendo in tema di legge elettorale in Italia (e all’interno delle singole regioni, come, ad esempio, in Sardegna) non sembra riflettere una piena consapevolezza delle implicazioni precedentemente considerate; ed a patirne le conseguenze saranno gli italiani tutti.