In un recente ed interessante scritto, dal titolo “Parlare agli italiani”, il segretario del Psi Riccardo Nencini, muovendo da una considerazione storica, cerca di aggiornare alla realtà di oggi il concetto di riformismo, per un verso tenendo conto del dato empirico del grande consenso ottenuto da Renzi, e dall’altro affermando per i socialisti italiani il compito di essere “partecipi del processo fondativo di una nuova storia riformista. Legati da un disegno condiviso alla sinistra riformista ma liberi, alternativi ai movimenti radicali, con un’identità marcata nelle aule parlamentari, nei comuni e nelle regioni…..A cominciare dalla legge elettorale.”
In sostanza, se non ho mal interpretato, si indica nel criterio riformista la bussola sulla quale orientare le trasformazioni di cui il paese ha bisogno, ed in un’alleanza politica così orientata lo strumento per attuarle.
Nel rivendicare l’eredità di una tradizione importante, Nencini inizia col constatare come, nell’Italia del secondo dopoguerra il riformismo si sia espresso attraverso la presenza, l’attività, la caparbietà, di settori minoritari di diversi partiti politici ed attraverso presenze nella cultura e nella società, ma esterne e spesso distanti dai partiti politici della prima repubblica.
Verissimo. E altrettanto vero è il fatto che il Psi di quei tempi, a prescindere da ogni giudizio che si possa dare sulle sue vicende, rappresentò comunque il perno politico ed operativo del riformismo italiano del secondo dopoguerra. Ma a ciò è doveroso aggiungere che, guardando a quegli anni, nei quali il paese andava ammodernandosi e nei quali, pur tra errori e contraddizioni, furono introdotte riforme significative che andavano nel senso della modernità, dell’apertura della società, dell’eguaglianza e dell’allargamento dei diritti individuali, civili, sociali, dobbiamo constatare che quella funzione di perno e di polo di attrazione per il riformismo italiano che il Psi seppe svolgere, fu tanto maggiore quanto più il Psi di allora seppe svolgere un ruolo proprio e “border-line” rispetto alle due ortodossie allora imperanti, conducendo in via autonoma le proprie battaglie politiche, che più di una volta risultarono più coerenti e determinate rispetto alle posizioni del maggior partito della sinistra italiana. E tale capacità non sempre e non necessariamente si trovò a coincidere con la presenza socialista nella famosa “stanza dei bottoni”.
Ed ancora, va aggiunta la considerazione che, ad accomunare le forze riformiste in alleanze di scopo che più volte si trovarono a non coincidere con le maggioranze di governo fu la comune propensione ad una mentalità critica, che si manifestava sia nella valutazione delle realtà politiche, sociali, economiche, che in atteggiamenti sovente eretici nei confronti delle culture politiche di origine e dei partiti di appartenenza.
Allora, ove si vogliano dare valutazioni corrette sul piano storico e, guardando alle prospettive attuali, su quello politico, occorre chiedersi di quale riformismo si sta oggi parlando, atteso che l’attuale effettiva maggioranza politica -quella del patto del Nazareno che, con qualche distinguo e non sostanziali richieste di modifica, sinora respinte, vede il sostegno non determinante, e forse poco convinto, del Psi di oggi – si autodefinisce come riformista in riferimento a proposte ed indirizzi che non hanno nulla a che fare, nel metodo e nei fini, con la tradizione del riformismo italiano.
Trovo che sia necessaria una grande chiarezza al riguardo, atteso che, per parte loro, troppo ampi settori della sinistra italiana sembrano essersi del tutto dimenticati di questo termine (e questa non è l’ultima delle ragioni del drammatico declino della sinistra), lasciandolo in mano a coloro che hanno trovato comode e facili intese con la destra interpretando il riformismo unicamente come prassi moderata, non sostenuta da adeguati strumenti concettuali, e finalizzata nella migliore delle ipotesi ad una sorta di manutenzione ordinaria destinata alla razionalizzazione e consolidamento degli equilibri esistenti, più che alla loro trasformazione. Tant’è che oggi, cosa inconcepibile sino a vent’anni fa, si parla indifferentemente di “riformismo di destra” e di “riformismo di sinistra”. Viene quindi naturale lo stimolo a meditare su un termine – quello di riformismo, appunto – il cui significato, non solo in Italia, è mutato profondamente nel corso degli ultimi decenni, sino ad acquisire connotazioni addirittura opposte a quelle che una consuetudine fondata sull’esperienza storica ha sempre assegnato a tale termine. Basti pensare che oggi assistiamo persino all’incongruenza semantica del gruppo conservatore al Parlamento Europeo, che si è dato la denominazione di Ecrg (European conservatives and reformists group).
Nella storia del pensiero politico, sotto la dizione di riformismo sono stati compresi concetti riferibili tanto al merito ed alle finalità, quanto agli strumenti ed ai metodi. Dalla Riforma protestante in avanti, in fasi storiche e con riferimento a situazioni politiche e sociali diversissime, il concetto di “riforma” e quelli connessi di riformista e riformismo sono stati sempre collegati ad idee di modernizzazione, di progresso, di liberazione ed emancipazione. Sono idee che hanno improntato il superamento del tardo feudalesimo nobiliare, dell’assolutismo regio, del potere ecclesiastico, l’affermarsi della Rivoluzione industriale, l’avvio del moderno costituzionalismo e la marcia in avanti del Terzo Stato prima e del Quarto Stato poi. L’evoluzione del parlamentarismo (basti ricordare il Reform Act del 1832), dello Stato liberale, della democrazia e del suffragio universale, l’affermazione dei diritti dei lavoratori, l’avvio di forme di democrazia più avanzate in termini di diritti sociali, sono stati altrettanti filoni e tappe sui quali si sono esercitati e sono stati messi alla prova pensiero e metodi riformisti.
In epoche più recenti, riformismo ha significato apertura della società, rimozione di concezioni ed istituti giuridici risalenti ai secoli precedenti, messa in discussione delle istituzioni chiuse, generalizzazione e parificazione dei diritti civili e sociali tra uomo e donna, sviluppo ed estensione dei meccanismi di protezione sociale e del welfare, tentativi di dare concretezza ai concetti di pari opportunità e di equità. In una parola, estensione del concetto di democrazia dalla sfera civile a quella sociale. Ciò ha coinciso con la formazione dei partiti operai, lo sviluppo politico della sinistra e la sua partecipazione a pieno titolo al dibattito pubblico ed alle attività di governo.
In quanto agli strumenti ed ai metodi, poche affermazioni sono prive di fondamento quanto quella che riformismo significhi comunque e sempre avversione al radicalismo e rifiuto pregiudiziale del concetto di rivolta. Nella storia moderna, il riformismo si è caratterizzato come metodo distinto dall’azione rivoluzionaria non tanto per il rifiuto dell’azione violenta, quanto per la ricerca preventiva del massimo consenso politico, restando la rivolta come ultima ratio da adottare nei confronti di sistemi che non consentano il manifestarsi dell’azione politica. Al riguardo, va ricordato come diverse Costituzioni, ed in Europa quella francese e quella tedesca, prevedano il diritto-dovere alla resistenza contro l’oppressione; anche nella nostra Costituente vi fu un’ampia discussione (Mortati, Lussu, Calamandrei) su questo punto, tant’è che la formulazione originaria da parte della Commissione dei 75 prevedeva (Art.50) la seguente formulazione: “Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate. Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”. Poi fu approvata la più banale formulazione espressa dall’Art. 54 (per inciso, con la principale motivazione che la presenza di forti ed adeguate istituzioni di garanzia – proprio quelle che gli autori delle attuali riforme intendono ridimensionare – rendeva superflua la codificazione di tale ultimo diritto-dovere riservato ai cittadini, che si sarebbe potuto trovare a confliggere con tali istituzioni). Piuttosto, a distinguere l’azione riformista da quella rivoluzionaria, sta il fatto che le concezioni ed i metodi riformisti rifuggono da fini comportanti la conclusione della storia e l’idea di sostituire al vecchio ordine un modello sociale rigidamente predeterminato e non suscettibile di evoluzione. Il riformismo porta con sé l’idea di una società in evoluzione verso nuovi, ma non definitivi, equilibri. Ed è insita alle concezioni riformiste la coerenza tra fini e metodi, per cui l’evolvere verso concezioni sociali più aperte ed avanzate non può farsi col sostituire a strutture sociali, economiche, giuridiche tanto superate quanto rigide, nuovi modelli altrettanto rigidi; e deve invece attuarsi attraverso processi che ne consentano il progressivo riadeguamento.
A sostegno di queste affermazioni stanno la Rivoluzione francese e quella americana, entrambe alla radice del moderno riformismo, pur essendosi entrambe manifestate come ribellioni (un discorso a parte riguarda la parentesi del Terrore). Cosa che non può dirsi per il processo sul quale si andò formando l’Unione sovietica, che, una volta portato a crollare il vecchio ordine, fu caratterizzato dal tentativo di progettare e costruire sin nei dettagli una nuova e definitiva società ideale, sacrificando a tale scopo ogni risorsa umana e materiale.
In termini concettuali, gli approcci riformisti possono essere considerati come affini all’evolversi dell’epistemologia e della filosofia della scienza. Alla pari dei metodi in uso nelle scienze, il metodo riformista incorpora il pensiero concettuale (teorie scientifiche per l’una ed ideologia per l’altro). E, come è andato avvenendo col definirsi del metodo scientifico, la verifica sperimentale, cioè il divenire della società e dell’economia, se correttamente e razionalmente interpretato, induce la necessità di ridefinizioni dell’apparato concettuale. Di fronte a concezioni ideologiche chiuse e, come il sistema tolemaico, tendenti a fornire ogni spiegazione all’interno di se stesse e prescindendo dalle verifiche empiriche, l’atteggiamento riformista è dapprima galileiano, nel senso di mettere in dubbio la teoria, e poi newtoniano, nel senso di ridefinirla razionalmente in base alle constatazioni effettuate; pronto a rimetterla ulteriormente in discussione di fronte all’inevitabile manifestarsi di nuovi eventi.
Il che non significa affatto farsi fautori dell’abbandono del pensiero teorico e dell’ideologia, come alcuni sostengono e praticano: significa invece valorizzarla facendone l’uso più appropriato ed utile, non riducendola a dogma passibile solo di esegesi, ma rendendola strumento ed oggetto di pensiero critico.
E’ evidente che, nell’evolversi del pensiero e delle condizioni politiche, questa concezione del riformismo, che non esclude affatto, ma anzi richiede il supporto di un robusto apparato concettuale e del radicalismo come atteggiamento politico, dovesse naturalmente scontrarsi con le posizioni dei reazionari, dei restauratori, dei conservatori di turno. Di coloro, cioè, che negavano l’idea stessa di trasformazione sociale in nome della difesa dei privilegi di casta e dei particolarismi o in nome della difesa degli interessi di classe, sostenendo sostanzialmente la concezione di uno Stato cui spettasse di tutelare un ordine naturale delle cose sancito dalla tradizione.
Agli avversari “naturali” dei riformisti, schierati sul fronte della conservazione, si è poi aggiunta quella parte della sinistra che, sull’onda della Rivoluzione d’Ottobre, si è mossa da concezioni massimaliste che comunque potevano mantenere un rapporto di compatibilità con la prassi riformista, all’adesione incondizionata ai principii ed ai metodi della Terza Internazionale, abbandonando il riformismo come metodo e come concezione culturale; cogliendone la natura alternativa al leninismo, allo stalinismo, alla logica del partito-guida, le concezioni ed i metodi riformisti sono stati interpretati e bollati come sinonimo di moderatismo avverso ad ogni trasformazione radicale.
Anche se i partiti comunisti dell’occidente – quello italiano in primis – nel loro pragmatismo, in più di un’occasione hanno assecondato spinte e forze riformiste, a volte anche scavalcandole nella ricerca di equilibri temporanei con le forze conservatrici, il termine “riformismo” è rimasto assente dal lessico ufficiale dei partiti comunisti, e pronunziato quasi con imbarazzo da altri; in Italia, sino agli anni del Centrosinistra. Si inscrive in questo clima la sintetica descrizione del riformismo italiano del dopoguerra, che Riccardo Nencini ha dato nell’incipit del suo scritto, evidentemente riferita ad un periodo successivo al tramonto del Partito d’Azione: “Isole comuniste, scogli liberaldemocratici, esperienze cattolico-sociali, interi arcipelaghi socialisti”.
Il distacco semantico e concettuale nei confronti del riformismo attuato da una parte della sinistra, maggioritaria in Italia, che non aveva visto negli obiettivi e nei metodi riformisti una risposta al conservatorismo ed al moderatismo, e vi aveva invece visto un’alternativa radicale alla logica del sistema binario Dc-Pci, ha fatto sì che, in via del tutto inappropriata, si sia aperta la strada alla concezione di un riformismo “debole” e tale da poter rappresentare anche processi involutivi rispetto ai contenuti ed ai metodi che la storia politica ha sempre definiti come riformisti. Così è avvenuto che, dopo il diffondersi di istanze radicalmente conservatrici in politica, fondate su un liberismo ideologizzato avverso a Keynes in economia ed a Beveridge sul piano sociale, e volte ad annullare la legittimità della sussistenza dei diritti sociali in una società moderna, quali quelle avviate dalla Thatcher e da Reagan, e seguite poi con minor coerenza da altri (tra cui la destra italiana), venissero a diffondersi sotto il nome di riformismo concezioni politiche deboli, svuotate anche dichiaratamente di pensiero, e rinunciatarie nell’azione.
In Italia, queste concezioni hanno condotto ad interpretare il termine riformismo in un senso del tutto riduttivo, unicamente come il contrario di radicalismo, rinunziando a priori ad ogni tentativo di rimuovere le arretratezze, le chiusure, l’immobilità, le iniquità del paese, e in particolare rinunziando a rivitalizzarne l’economia e la società. E, nella migliore delle ipotesi, cercando di attutirne qualcuno degli effetti senza rimuoverne le cause. Sono state quindi definite come riformiste concezioni incapaci di rappresentare un’alternativa compiuta e credibile alle forze di destra, ed anzi spesso alla ricerca di intese con questa, e da questa sovente condivise. Intese che erano rivolte ad annacquare e ridimensionare i processi di liberalizzazione, democratizzazione, apertura civile, sociale ed economica che avevano caratterizzato le democrazie industriali sino agli anni ’70.
Tale è stata la parabola del Pd, sino ad arrivare al culmine raggiunto con l’avvento di Renzi e con il patto di mutuo soccorso del Nazareno, che sancisce la resa culturale e politica a concezioni antiparlamentari ed antidemocratiche facenti parte del patrimonio di una destra estranea ai processi che hanno portato alla nostra Costituzione, ma del tutto estranee alla storia del nostro riformismo e della nostra democrazia. Si sta così consumando la mistificazione dell’autoattribuirsi la qualifica di riformisti da parte di coloro che, dopo anni di denigrazioni, hanno intrapreso lo smantellamento formale e sostanziale del miglior risultato del riformismo italiano (quello vero, di cui si è detto sopra),: la Costituzione della Repubblica Italiana.
Oltre venti anni sono stati così perduti in un lento ma costante e progressivo declino che si misura sul piano di tutti gli indicatori economici e sociali, sul piano della disaffezione degli elettori e del dilagare del populismo, per finire con lo sfociare nello smantellamento di alcuni pilastri istituzionali della nostra democrazia, dopo che -appunto nel corso di questo ventennio- ne erano state ampiamente corrose le basi sociali ed economiche.
Essendo questo ragionamento centrato sui metodi della politica, non intendo in questa sede entrare in ragionamenti di prospettiva politica a breve. Ma, giunti a questo punto, una domanda ed una conclusione si impongono. La domanda, indotta dal testo che ha avviato questo ragionamento, è la seguente: a quale delle due concezioni di riformismo che sono state qui sopra esaminate intende riferirsi Riccardo Nencini, a quella grande tradizione riformista all’interno della quale egli rivendica giustamente la centralità dei socialisti di allora, o alla distorsione che oggi ne vien fatta, e nella quale i socialisti di oggi sono tutt’altro che determinanti?. La conclusione, che in effetti rappresenta la sintesi del ragionamento che qui è stato svolto, sta invece nella tesi che se la sinistra italiana vuol riprendere la propria capacità di iniziativa e ricostruire un rapporto con i cittadini e gli elettori deve avere il coraggio e la capacità di riappropriarsi di un’eredità, quella riformista, che le spetta e che ha caratterizzato le sue maggiori e più durature affermazioni. Il che significa saper reinterpretare criticamente, oltre che la sua storia, anche il suo modo d’essere ed il suo farsi forza politica. E saper assumere i connotati galileiani e newtoniani di cui si è detto sopra. E’ questo l’approccio col quale il sottoscritto ha dato il suo contributo a “Iniziativa 21 giugno”.
Pubblico integralmente questo lungo intervento – che fra l’altro non è indirizzato alla nostra rivista, ma al segretario del Psi – perché mi sembra emblematico di un cattivo umore che circola oggi nell’area socialista, e che, a quanto vedo, anima anche la “Iniziativa 21 giugno” a cui Cassano ci informa di avere aderito. Mi permetto quindi di chiosarlo, con la speranza di aprire un confronto.
Innanzitutto mi sembra discutibile individuare il “miglior risultato del riformismo italiano” nella Costituzione del 1948. Non fu così nell’elaborazione, se si pensa al ruolo marginale svolto da laici e socialisti in seno alla Costituente. E non fu così nel risultato, se Piero Calamandrei, con laico distacco, potè osservare che “per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa”.
Che poi il bicameralismo paritario vada annoverato fra le “forti ed adeguate istituzioni di garanzia” che “gli autori delle attuali riforme intendono ridimensionare” mi sembra un’enormità che non si giustifica neanche per amor di polemica: anche perché, come è noto, il bicameralismo diventò del tutto paritario solo nel 1963, quando le Camere provvidero ad equiparare anche formalmente la durata delle legislature delle due Camere, che nel 1953 e nel 1958 era stata garantita di fatto con lo scioglimento anticipato del Senato, la cui durata la Costituzione del ‘48 fissava in sei anni.
Ma questi sono dettagli, e forse pedanterie. Più importante è osservare che il fenomeno che per Cassano sarebbe stato “inconcepibile fino a vent’anni fa”, e cioè che si possa parlare “indifferentemente di riformismo di destra e di riformismo di sinistra”, non venti ma trenta anni fa venne concepito (ed analizzato) da Norberto Bobbio, che dopo avere demistificato l’endiadi “progressismo e riformismo” (tenuta insieme perché entrambi “avevano in comune l’idea della positività del cambiamento”), aveva osservato come “oggi i maggiori mutamenti siano quelli richiesti e in gran parte attuati in alcuni paesi dai neoliberali”: per cui, “se per riformismo s’intende il partito del cambiamento, riformisti sono gli altri”, e comunque “dove tutti sono riformisti, nessuno è riformista”.
Il contributo di Bobbio (che abbiamo pubblicato da ultimo nel numero di marzo/aprile della rivista) si collocava nel contesto di quella ricerca che caratterizzò l’evoluzione del socialismo italiano a cavallo fra gli anni ’70 e gli anni ’80 del secolo scorso: gli anni del Progetto socialista, della Grande riforma, della Conferenza di Rimini e del governo Craxi. Gli anni, insomma, in cui ci sforzammo di ripensare il riformismo in un’epoca in cui riformisti erano gli altri.
Sul tema c’è ormai un’ampia letteratura. Io però preferisco la sintesi esemplare che ne fece Alberto Benzoni (“Il craxismo”, 1991): “Se proprio di rivoluzione si doveva continuare a parlare, questa non era più la modifica radicale, il superamento dell’ordine esistente attraverso l’azione cosciente della politica, quanto piuttosto l’evoluzione spontanea e multiforme della società, che si trattava di capire e sostenere. E questa evoluzione-rivoluzione doveva essere, anzi, in un certo senso era, necessariamente positiva. In altre parole il ‘reale’ non era un disordine potenzialmente catastrofico da trasformare con l’azione di una superiore razionalità di pochi. Ma un processo per definizione razionale che si doveva in primo luogo capire e poi favorire e, se del caso, orientare”,
Se ho capito bene, invece, per Cassano anche quelle idee “erano rivolte ad annacquare e ridimensionare i processi di liberalizzazione, democratizzazione, apertura civile, sociale ed economica che avevano caratterizzato le democrazie industriali sino agli anni ’70”: non a caso, del resto, Cassano salta a piè pari gli anni ’80 (e molto altro ancora) per la fretta di arrivare ad esecrare l’immondo Patto del Nazareno. Se non lo avesse fatto, si sarebbe reso conto che anche allora (cito ancora Benzoni) erano in molti ad accusare i socialisti “di avere introdotto una logica ed una pratica di regime limitative degli spazi di libertà e delle prerogative dell’opposizione, e di aver praticato un avventurismo oggettivamente eversivo, con esplicita volontà di attentare alla Costituzione”.
Intendiamoci: non c’è niente di male ad essere nostalgici di falce, martello e libro, ed a considerare gli anni ’80 la tomba del socialismo italiano. Fra l’altro, ci si trova in numerosa compagnia. Personalmente, però, preferisco compagnie più selezionate.
Il punto non è se gli anni ’80 del secolo scorso sono stati anni caratterizzati dal riformismo socialista, perché è certissimo che lo sono stati; il punto è se il disegno e l’agire di Renzi e del suo governo, e se i poteri che lo hanno inventato, hanno i tratti minimi di un riformismo, non generico, ma del riformismo socialista, e non quelli propagandistici della ” rerum novarum cupiditatem “
Plaudo all’iniziativa di questa discussione.
Sono anni che affermo che “non sono riformista ma Socialista Democratico (lo spazio è essenziale)”.
RIFORMISMO: RISPONDO A COVATTA.
Ringrazio Luigi Covatta per l’attenzione riservata al mio testo. E, in quanto al suo commento, che mi pare non poco stizzito, immagino mi sia consentito un cordiale quanto franco dissenso, nella forma e nella sostanza.
Quanto alla prima:
• Appare riduttivo e quasi un lapsus, anche se posso comprenderne la ratio politica tutta interna, il derubricare un ragionamento che cerca di osservare e capire l’evolversi del concetto di riformismo ad emblema “di un cattivo umore che circola oggi nell’area socialista”. Non ritengo infatti che possa parlarsi di malumore, come se si trattasse dei piagnucolii degli eterni incontentabili che non mancano mai nella vita dei partiti, quando invece si tratta di sostanziali diversità di impostazione concettuale e politica, alle quali il mio articolo cerca di attenersi.
E si tratta di diversità che non riguardano solo una parte non irrilevante dell’area socialista, ma anche pezzi del PD, e tutti coloro che, come il sottoscritto, si ostinano a non ritenere, da riformisti, di poter assentire passivamente allo smantellamento anche istituzionale della nostra democrazia, dopo che per oltre un ventennio ne sono state minate le basi culturali, sociali, economiche.
In una parola, si tratta di questione che coinvolge tutta la sinistra. E, se questo ragionamento, che non è rivolto in via esclusiva all’area socialista, intercetta in toto o in parte queste diversità, vuol dire che ha colto nel segno.
• Non trovo poi cosa corretta l’arruolare, ribaltando il senso delle sue parole, un Piero Calamandrei che nella nostra Costituzione udiva l’eco di voci lontane (Beccaria, Cavour, Mazzini, Cattaneo, Garibaldi) e vicine (i morti della guerra fascista e della Resistenza), nel novero dei critici di una Costituzione che ha avuto appunto, come in effetti lui dice, il grande merito di indicare una via riformista alla rivoluzione sociale di cui il Paese aveva bisogno: vedi l’Art. 3. O forse, secondo Covatta, non ne aveva bisogno?
Via riformista che iniziò da subito a produrre risultati, dopo le lunghe ed appassionate discussioni sulle quali si confrontarono trovarono liberali, laici, popolari, azionisti, socialisti, comunisti: appunto, i depositari di quelle voci. Figure di ben diversa statura culturale, politica e, soprattutto, morale, rispetto a questa banda di ignorantelli presuntuosi che interpreta il Diritto Costituzionale come strumento di opportunità politica.
O vogliamo invece associarci al giudizio di coloro che, vedendovi il dettato delle sinistre, nel recente ventennio iniziarono la denigrazione della Costituzione; o a coloro che, considerando il lavoro come una merce, non ritengono che l’Italia possa fondarsi sul lavoro?
• Disturbare poi Bobbio per sostenere che per riformismo possa intendersi qualsivoglia partito di qualsivoglia cambiamento, mi pare anche questo un utilizzo molto parziale e strumentale del suo pensiero. Con questo criterio, anche il Concilio di Trento, la Santa Alleanza, o Mussolini, o la Thatcher, possono essere considerati manifestazioni o autori di riformismo. Io mi sono limitato ad osservare che, se ha un significato di contenuti e di metodo la corrispondenza tra il concetto di riformismo ed i concetti di liberalizzazione, emancipazione, democratizzazione (ed a mio parere questa corrispondenza sussiste), allora non tutto può essere considerato riformismo.
Ove invece si ritenga che tale corrispondenza non sussista, allora qualsiasi cosa può venir fatta passare per riformismo: anche l’indigeribile brodaglia del Patto del Nazzareno o una politica che, nella migliore delle ipotesi, cerca di attutire effetti senza sapere o volere rimuovere le cause, anzi finendo con l’aggravarle. Ma allora non ci si deve stupire, come fa Gigi Covatta, se considero tale sorta di riformismo che ho definito “debole” come diretto ad annacquare e comprimere i processi di apertura della società.
• Ancora, mi si attribuisce del tutto a vuoto l’opinione che il bicameralismo paritario vada compreso tra quelle istituzioni di garanzia delle quali critico lo smantellamento: in nessun punto del mio scritto parlo di bicameralismo paritario. E credo che sia ragionevole il sostenere che l’aborto di Senato che è stato previsto dal voto di Palazzo Madama non sia la migliore, ma neanche l’unica, strada per superare il bicameralismo paritario. Sostenere il contrario è il ritornello di coloro che cercano di trovare una ben misera motivazione ad un qualcosa che essi stessi sanno per primi essere indifendibile.
Venendo alla questione centrale e più politica, Covatta mi censura per il fatto di: <>.
Dunque, nel mio ragionamento sul riformismo, mi sarei fermato agli anni ’70, ed avrei omesso gli anni ’80. Anche qui, il ragionamento di Covatta è influenzato, comprensibilmente, da questioni interne. Si tratta degli anni di Craxi, ed ho premesso nel mio ragionamento di prescindere da una valutazione sulle vicende del PSI di allora, che aprirebbe ben altra discussione.
Ma, tirato in ballo, non posso tacere sul fatto che, comunque si intenda valutare il periodo craxiano, questo fu caratterizzato da grande autonomia, financo spregiudicata, nei confronti dei predecessori dell’attuale PD. Cosa che oggi non è dato di osservare.
D’altra parte, va osservato che la grande stagione delle riforme (quelle realizzate, e che hanno cambiato la vita degli italiani), si era già chiusa con la fine degli anni ’70: la legge sull’aborto e la cosiddetta legge Basaglia sono del 1978. Da allora, e certo non per volontà di Bettino Craxi, inizia una fase di stanca, di ricerca (senza trovarli) di nuovi assetti, di gioco politico (tra DC, PSI, PCI), condotto sempre meno sul piano delle cose da farsi e sempre più sul piano del controllo della cosa pubblica (epperciò sempre più spregiudicato, senza regole, e duro, come poi si è visto). Sono gli anni in cui la politica inizia a trasformarsi da strumento in fine, e che preparano la seconda repubblica. E, se pure Craxi fu definito come l’inventore del decisionismo e della personalizzazione e spettacolarizzazione della politica, e fu rappresentato con mussoliniani stivaloni ai piedi, se ebbe duri scontri sulla questione del voto segreto sulle leggi di spesa, se iniziò a parlare di presidenzialismo, sarebbe un falso storico il farne il precursore del Patto del Nazzareno, che nasce da ben altre esigenze, ha ben altri e più bassi fini, e produce effetti che nessuno, in quegli anni, si sarebbe sognato di avallare. Analoga falsificazione è stata quella compiuta dalla destra nell’utilizzo improprio e strumentale della vicenda di un Bettino Craxi, che di leggi ad personam non ne ha mai proposte né imposte, a sostegno della concezione della giustizia ad personam in favore dei vari Berlusconi, Previti, Dell’Utri (e non solo).
Concludendo, osservo con soddisfazione che Gigi Covatta ha implicitamente dato risposta alla mia domanda conclusiva su quale sia la concezione di riformismo che si ritiene di dover portare avanti. Peccato che, per molti, il riformismo sia un’altra cosa.
Gim Cassano, 26-08-2014 (gim.cassano@tiscali.it)
Caro Gigi
come sai ( spesso a tue spese) sono un grafomane seriale. Con l’aggravante, dovuta alla mia scarsa pratica di internet, di non poter entrare in contatto con i miei ipotetici lettori e, quindi, di non sapere quasi mai “l’effetto che faccio”. Essere ampiamente citato quindi è un vero balsamo; di cui ti sarò eternamente grato.
Ciò detto vorrei anche, come diceva mons. Fisichella, essere contestualizzato. Nel senso che le mie osservazioni a difesa di Craxi nel 1991 non possono essere usate a difesa ( se mai ne avesse bisogno) di Renzi nel 2014.
Il Craxi di quegli anni era oggetto di attacco non come riformista ( da questo punto di vista i suoi risultati concreti erano alquanto magri) ma come grandissimo e coraggioso revisionista. Dire allora che le riforme dovevano modellarsi sull’evoluzione della società e non partire da vocazioni ideologiche o da intenti salvifici richiedeva un coraggio intellettuale non comune; perchè erano in contrasto con la vulgata dell’epoca.
Oggi, ripetere questo concetto sarebbe, insieme, un atto di pigrizia intellettuale e una cattiva azione dal punto di vista morale. Perchè i soloni del pensiero unico non ci ripetono altro. Quello che ci dicono è che l’Italia e l’Europa non possono permettersi nè lo stato del benessere nè la democrazia politica; in altre parole che la civiltà socialdemocratica, e cioè la forma più alta di convivenza civile finora costruita dall’umanità è un’anticaglia da superare; e contestualmente che chiunque, magari senza disporre ancora di strumenti adeguati, intende difenderla è sostanzialmente un cretino. E, allora io sto, con i cretini, pregiudizialmente. Difendendo non un riformismo buono a tutti gli usi ma quello funzionale all’aggiornamento della civiltà socialdemocratica, diritti compresi .
In quanto poi alle aspirazioni alla dittatura ricordo, in primo luogo a me stesso, che Craxi cercò sempre il dialogo con gli altri e fu, anche a sue spese, un uomo attaccato ai principi ai valori e alle regole della repubblica.
Resta da vedere, allora, se il vostro Telemaco ( in quanto ad Ulisse, suggerirei piuttosto di preoccuparsi di individuare Penelope) sia le reincarnazione di quel Craxi, anzi il Gesù annunciato da quel Giovanni Battista.
Personalmente sono piuttosto scettico. Vedremo, anzi cerchiamo tutti di vedere, anzi di capire. Da arenziani. Personalmente ritemgo che l’antirenzismo senza una linea politica e culturale alternativa sia puro nullismo. Mentre penso anche che dichiararsi, collettivamente e pregiudizialmente renziani non ci porti da nessuna parte. Forse, come ci è stato detto, dobbiamo essere renziani perchè abbiamo gli stessi nemici; o forse no. Affronto con disagio questo tema, anzi lo abbandono subito. Sento che porterebbe con sè interrogativi e notazioni personalissime e perciò rispettabili. Erigerli alla base di comportamenti collettivi sarebbe invece inutilmente lacerante
Vedo che Cassano si trova più a suo agio fra i caciocavalli appesi (come avrebbe detto Benedetto Croce) di Beccaria, Cavour, Mazzini, Cattaneo e Garibaldi che non col giudizio storico-politico di Piero Calamandrei: il quale, ad ogni buon conto, non solo era presidenzialista, ma era a favore della costituzionalizzazione della separazione dei ruoli fra magistratura inquirente e magistratura giudicante, tanto per parlare di una questione che fra poco tornerà di stretta attualità e sulla quale si scateneranno i “difensori della Costituzione” ai quali Cassano si accompagna. Senza dire che alcune delle scelte fondamentali per cambiare l’Italia – per esempio la scelta atlantica e quella europea – vennero operate da De Gasperi e La Malfa proprio nel periodo in cui l’allegra brigata evocata da Cassano (“liberali, laici, popolari, azionisti, socialisti, comunisti”) denunciava la mancata applicazione della Costituzione.
Quanto a Bobbio, non lo disturbiamo ora, ma lo disturbammo trent’anni fa: nel senso che il suo intervento era un consapevole ed appassionato contributo ad una ricerca collettiva – che coinvolgeva Amato e Martelli, Giugni e Federico Mancini, Ruffolo, Cheli e tanti altri – su come rinnovare la cultura politica della sinistra in un’epoca in cui l’innovazione procedeva da destra, e la sinistra rischiava – come poi spesso è avvenuto – di presidiare la conservazione dell’esistente. E comunque non è colpa mia se allora si disturbava Bobbio ed ora si preferisce disturbare Zagrebelsky e Rodotà.
Sugli anni di Craxi segnalo a Cassano che è in libreria l’ottavo volume dell’omonima collana diretta da Gennaro Acquaviva e pubblicata da Marsilio: può essergli utile per documentarsi meglio, evitando così di trinciare giudizi sul riformismo italiano che sarebbe finito con la legge Basaglia. E magari per ricordare che nel 1978, oltre che della legge Basaglia, ci si occupò anche del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro, vicenda non secondaria per le sorti del riformismo e della stessa democrazia italiana, come intuì Craxi, che proprio allora si convinse della necessità di riformare innanzitutto il sistema politico. Obiettivo fallito, com’è noto, forse anche per colpa dello stesso Craxi. Il quale comunque nel suo carniere di riformista mise la riforma della scala mobile (premessa per una più generale riforma del modello contrattuale); la riforma del Concordato fascista promessa da De Gasperi e Togliatti quando votarono l’articolo 7 della “Costituzione più bella del mondo”; la riforma della Comunità europea, facendo approvare l’Atto unico al Consiglio europeo di Milano; ed anche una corposa “riforma” dei rapporti interatlantici, se è vero che dopo Sigonella il governo americano cominciò a trattare col dovuto rispetto l’alleato italiano, anche quando Reagan voleva bombardare Gheddafi come un qualsiasi Sarkozy.
L’importanza di queste riforme mi sembra sfugga anche a Benzoni, il quale comunque sa meglio di me che il riformista più efficace è innanzitutto un revisionista. E che revisionisti non sono solo quelli – da Bernstein in poi – che hanno tagliato la barba di Marx. Sono anche quelli capaci di rivedere le conquiste del “secolo socialdemocratico” alla luce di quanto sta accadendo nel secolo in corso. Da questo punto di vista io non mi schiero pregiudizialmente coi cretini. Io mi schiero pregiudizialmente con Schroeder contro Lafontaine e con Tony Blair contro Gordon Brown.
Mi schiero pregiudizialmente anche con Renzi? Presto per dirlo. Sicuramente non mi schiero pregiudizialmente contro. So bene che non è il Messia, e forse non è neanche Telemaco. Ma verifico che il suo avvento ha scompaginato gli equilibri (?) politici della seconda Repubblica, cioè del ventennio più inutile della storia unitaria. Ed ha scompaginato innanzitutto gli equilibri interni al Pd. E’ un’occasione troppo importante, questa, per seguirla con l’atteggiamento della zita contegnosa. Importante soprattutto per i socialisti, che hanno l’opportunità di uscire dalle nicchie in cui, bongré malgré, sono stati costretti a rifugiarsi negli ultimi vent’anni. Per questo, fra l’altro, pubblichiamo la nostra rivista: per dare un contributo autonomo alla formazione della sinistra riformista, e non per intrupparci dietro a Vendola, Mineo e Vannino Chiti.
Forse non ho i titoli politici per entrare in questa discussione, ma essendo un “nostalgico” del sole nascente, falce, martello e libro erano diversi giorni che ero tentato di entrare nel merito. Come iscritto al partito dal 1968 faccio osservare che il PSI tra i tanti pregi ha sempre avuto quello di guardare al futuro con realismo e spesso con competenza, non sempre. Questa estate leggendo il libro di Silvia Nasar “L’Immaginazione economica” ho avuto modo di approfondire le idee e le teorie di J.M.Keynes e molti economisti di oggi ce lo ricordano: Krugman, Stiglitz, Piketty, Rifkin, Mazzuccato e tutti gli altri che ci hanno lasciato scritti per combattere “recessione, deflazione …” e altri accidenti che il sistema capitalistico ogni cinquanta o settant’anni ci fa ammalare. Bene, tutto questo mi ha fatto raggiungere la convinzione che in questo paese è indispensabile costruire un PSI e i simboli che abbiamo avuto fino al 1980 rappresentano un simbolismo immediato per raggiungere la mente e il cuore di ogni cittadino responsabile e democratico.
CASSANO A COVATTA
Forse perché a corto di argomenti più solidi, o forse perché qualcuna delle mie affermazioni tocca qualche nervo scoperto, Covatta ricorre a toni inutilmente aspri e provocatori nei confronti dei miei argomenti, ed anche della mia persona. Non riesco a trovare altra spiegazione ad un atteggiamento che rende impossibile una discussione ed un confronto seri su una questione che non è solo semantica, ma pienamente politica.
Che egli affermi che io mi trovi a mio agio con il pensiero di quelle figure che Calamandrei citava nel suo “Discorso sulla Costituzione” è profonda verità. Ma il definir ciò con la metafora dei caciocavalli appesi che Croce usò per riferirsi allo spiegare ad un ignorante concetti astratti quanto complessi (le idee platoniche in quel caso) è infatti provocazione, oltre che fuori tema.
Sarebbe poi cosa opportuna, anche per rispetto nei confronti di chi legge, evitare illazioni del tutto gratuite, mettendo in bocca al proprio interlocutore cose che egli non pensa e che mai ha detto o scritto, quali la difesa che il sottoscritto farebbe del bicameralismo perfetto (vedi il precedente commento), o quali le possibili obbiezioni alla separazione dei ruoli tra magistratura inquirente e giudicante. Vedremo quando ci si capirà qualcosa. Certo è che ad oggi la stessa maggioranza non ha le idee chiare e, se Covatta me lo consente, suscita qualche preoccupazione un Nazzareno-bis sulle cosiddette riforme.
Osservo poi la profondità del termine “allegra brigata”, alla quale il sottoscritto si accompagna, usato a definire l’area culturale e politica che ha dato vita alla Costituzione. E ricordo che De Gasperi e La Malfa, ed altri, che condussero le scelte atlantica ed europea che Covatta ci rammenta, erano anch’essi parte dell’allegra brigata.
Covatta dice poi, in modo molto raffinato, di non intender schierarsi coi “cretini”. Chi sono i cretini? Coloro che non la pensano come lui? Mi sembra troppo simile, questo ragionamento, a quello di Berlusconi che definiva come coglioni coloro che votavano a sinistra. Brillante esempio di civile confronto e di signorile eleganza. Non sono uso a questi termini; mi limiterò quindi a replicare che, essendo a questo punto chiunque legittimato a considerar cretino chi gli pare, ognuno ha il diritto di schierarsi coi non-cretini suoi; non se l’abbia poi a male Covatta se il concetto di cretino muti a seconda del non-cretino che lo esprime.
In quanto al sottoscritto, egli non è uso all’intrupparsi al seguito di nessuno; tantomeno dietro i nomi che del tutto gratuitamente sono stati citati: e chi mi conosce, ben lo sa. Ma forse gli sfugge che esiste la possibilità, certo più rischiosa e quasi sempre meno pagante, di far politica senza intrupparsi dietro qualcuno.
Ciò detto, mi sorprende la foga anti-Costituzione che Covatta a più riprese mette in campo, ripetendone sostanzialmente il giudizio negativo già datone da Berlusconi, in quanto figlia di una cultura di sinistra: sino ad arrivare al giudizio storicamente infondato circa il fatto che vi furono marginalizzate le culture laico-liberale e socialista. E’ chiaro che la Costituzione non fu il frutto di un pensiero unico, per fortuna, e che ognuno dei grandi filoni di cultura politica che partecipò alla sua stesura, lasciato da solo, la avrebbe scritta diversamente. Ripeto, per fortuna ciò non avvenne, e qui sta la sua capacità, mantenuta sinora, di tracciare e prescrivere una via riformista alla rivoluzione della società italiana di cui l’Italia aveva bisogno (e non dal 1945, ma da almeno 30 anni prima: per non parlare di Gramsci, che lo irriterebbe, basti leggere Gobetti, Dorso, Salvemini).
Il sottoscritto, che di concetti laico-liberali qualcosa sa e qualcosa pratica, non avverte tale marginalità; e non crede azzardato sostenere che non sussista neanche nei confronti dei concetti socialisti. Si tratta di capire cosa si intenda per liberale, socialista, liberalsocialista; esattamente come per “riformista”. Il punto sta tutto qui, e Covatta mal digerisce che qualcuno si permetta di calpestare il suo prato ricordando che liberalismo, socialismo, riformismo, nonostante la partecipazione attiva fornitavi da sedicenti liberali, laici, socialisti, riformisti, sono qualcosa di molto diverso ed incompatibile con lo scempio dell’Italia fatto da Berlusconi, che oggi Renzi si appresta a razionalizzare senza mutarne gli indirizzi, ed anzi patteggiando con il quasi ex-Cavaliere i termini delle principali cosiddette riforme.
Invece, non mi intendo, né vado alla ricerca, di messia. Non mi interessa sapere se Matteo Renzi sia tale; ma, se un merito gli va riconosciuto, almeno in termini di chiarezza, è quello di aver definitivamente sciolto l’equivoco della collocazione del PD. Una forza centrista, alleata sulle questioni di fondo con la destra più impresentabile d’Europa. E, per parafrasare Calamandrei, nelle riforme oggi sul tavolo o in via di approvazione, si odono nuove voci. Che non sono precisamente quelle della nostra storia democratica, ma piuttosto quelle di coloro che l’hanno vissuta con fastidio, quando non apertamente avversata, nella politica, nelle scelte riguardanti le istituzioni, nella scuola, nel mondo del lavoro.
Finisco qui, caro Covatta, con il dispiacere che i Tuoi toni non consentano un confronto serio e, se posso permettermi, suggerendoti anch’io una lettura: quella di “Democrazia in crisi” di Harold Laski: un libro profetico, che ha 80 anni, scritto da un laburista di sinistra.
Gim Cassano, 28-08-2014
Se Cassano avesse l’abitudine di leggere anche quello che scrivono gli altri avrebbe capito che il riferimento ai “cretini” era in repica al commento di Benzoni : il quale ha detto che, se per il “pensiero unico” è “un cretino” chiunque difenda il Welfare State, lui si schiera “pregiudizialmente coi cretini”.