Dall’assemblea romana della minoranza Pd sono emerse delle parole d’ordine: “sinistra”, “pensiero”, “riformisti”, “territorio”. Il termine “riformista”, in particolare, va accentuando una sua caratteristica riscontrabile ormai da decenni: la polisemia. Secondo l’accezione di Cuperlo, D’Alema, Bersani, Fassina e altri, ad esempio, esso sembra indicare un approccio volto al cambiamento graduale nell’ambito di una “tradizione” di sinistra. Tante volte e in vari contesti ho sottolineato l’importanza della tradizione proprio al fine dell’innovazione, citando ad esempio il Labour britannico. Secondo la declinazione di quegli esponenti dem, però, il riformismo parrebbe indicare un modo di procedere secondo metodi, forme e tempi a loro modo interni a una prassi consolidata.
L’innovazione perseguita dal nuovo corso di Renzi vorrebbe invece adeguare i ritmi della politica a quelli della società e dei problemi. Non si tratterebbe di una “fuga”, bensì di porre rimedio al cronico ritardo dei gruppi dirigenti e della sinistra rispetto alla realtà.
Riguardo poi alla proposta della minoranza Pd di dar vita, dal “basso”, a “circoli della sinistra”, un’occhiata superficiale porta a scorgervi un margine di ambiguità. Da un lato si pone l’accento sull’esigenza di rivitalizzare il partito sul territorio, di organizzarlo meglio; dall’altro viene forse evocata un’atmosfera già nota: quella dei “cantieri” e della “sinistra dei club”.
Che si aprano cantieri, specialmente in presenza della crisi dell’edilizia, non è un male. La polisemia invece sì. Se ne accorsero già a Babele. Il rimedio è tornare all’univocità. Per esempio, nel caso della sinistra italiana, tornare a distinguere fra riformisti e massimalisti. I quali ultimi si manifestano solo se i riformisti battono un colpo. Finora nel Pd non lo hanno fatto, preferendo classificarsi per etnie (postdc, postpci, ecc.). E’ ora di aprire un cantiere autenticamente riformista, per mettere in grado l’opinione pubblica di diffidare delle imitazioni.