Sono passati quattordici anni dall’assassinio di Marco Biagi. Trent’anni prima, nel 1972, era con me sul palco di piazza Maggiore a fare campagna elettorale per il Movimento politico dei lavoratori. Già allora, cioè, aveva scelto da che parte stare nel conflitto fra capitale e lavoro, anche se in quel momento questo significava disobbedire ai vescovi della sua Chiesa, che ancora pretendevano l’unità politica dei cattolici.
Posso quindi immaginare la sua pena, all’inizio del nuovo secolo, nel vedersi dipinto come non era: un nemico dei lavoratori e un amico dei padroni. Ripercorreva lo stesso Calvario che nel 1984 aveva percorso con Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto, Ottaviano Del Turco, e tanti altri compagni che quando l’unità del mondo del lavoro era davvero in pericolo (per esempio a metà degli anni ’60) si erano battuti per l’unità sindacale.
Nel 2002, però, Marco era solo. Ed erano soli anche i suoi assassini. Marco non aveva alle spalle un movimento sindacale impegnato a rinnovare le proprie politiche e le proprie strategie. E i suoi assassini non avevano davanti agli occhi neanche il mito di una rivoluzione ormai finito sotto le macerie del muro di Berlino.
Ecco: se c’è un impegno che possiamo prendere con Marco è quello di non lasciare mai più solo chi si batte per tutelare i lavoratori di oggi senza attardarsi a difendere le tutele del passato; ed anche quello di isolare i visionari che alle armi della critica preferiscono la critica delle armi.