Perché è così frequente che i protagonisti della vita pubblica, soprattutto nel nostro Paese, trovino tanto difficile “uscire di scena”?
Proviamo a mettere in parentesi i motivi di tipo psicologico e gli “interessi”, materiali e non, legati alla loro ostinazione. E prendiamo atto del fatto che, pur in modi e contesti assai dissimili, l’identificazione del leader con un soggetto politico non è un fenomeno nuovo. Per restare all’Italia repubblicana, tutti sanno ad esempio come Togliatti o Berlinguer abbiano incarnato il Pci. Per non dire dei socialisti “di” Nenni o “di” Saragat, e di ciò che Craxi ha rappresentato.
Oggi, pur in uno scenario precario e mutevole, non di rado quelli che ancora vengono definiti partiti o movimenti costituiscono in realtà una sorta di appendice o propaggine del “capo”.
Riproponiamo dunque il quesito: perché il capo è o crede di essere insostituibile? Secoli fa qualcuno disse: “lo Stato sono io”. C’è forse chi ancora pensa così. O magari, con un pizzico di modestia in più, è convinto che il partito sia lui. E allora, dando per scontata la buona fede, riusciamo magari a scorgere il paralogismo: “conservare e rafforzare il mio ruolo e il mio potere coincidono con il bene del Paese”.
Come replicare a una giustificazione del genere? Più che nel merito, si potrebbe obiettare che tale argomento è troppo “chiuso”; non lascia spazio ad altro.
Ecco, dunque, uno dei limiti del “partito personale”: propone discorsi talora originali e fecondi, ma non consente loro di godere di vita propria nel confronto pubblico. Il capo vorrebbe intrappolarli, non permettendo loro di trascendere dall’autore. E così facendo, si illude di mettere le brache alla storia.