Non ho mai condiviso la posizione di quanti sostengono che: “In amore, in guerra e in politica tutto è concesso”, perché convinto che anche in circostanze di quel tipo ciascuno di noi debba porsi un limite oltre il quale – inevitabilmente – ci si avvia a operare in mala fede e a mentire sapendo di mentire.
In questo senso non mi appassiona molto l’aspro confronto che, come da consolidata prassi, ancora una volta contrappone Susanna Camusso a Pietro Ichino a proposito dei tre referendum proposti dalla Cgil.
Dopo la decisione della Corte costituzionale, che ha ritenuto inammissibile il referendum sull’art. 18 dello Statuto, ritengo oggi poco interessante soffermarmi sul suo carattere “omogeneo” – come sostenuto dalla Cgil – piuttosto che “manipolativo” (nel senso che non mirava solo ad abrogare una norma, ma sostanzialmente a introdurne una nuova); come da altri denunciato.
Rispetto agli altri due quesiti, sui quali spero, saremo chiamati presto a esprimerci, le mie considerazioni si differenziano dalle posizioni espresse dai suddetti contendenti.
Personalmente, in assoluto, non sono contrario ai “buoni-lavoro”. Di certo non rappresentano una soluzione al dramma della disoccupazione, soprattutto giovanile: ma non condivido la semplicistica e liquidatoria definizione (“una porcheria”) che ne offre Lorenzo Fassina; responsabile dell’Ufficio giuridico della Cgil.
Naturalmente, sono favorevole al loro uso a patto che rappresentino effettivamente uno strumento di “nicchia”, così come, d’altra parte, mi pare di ricordare, fossero stati inizialmente pensati: riservati quindi a poche fattispecie di prestazioni occasionali; singolarmente individuate e soprattutto limitate nel tempo, piuttosto che rispetto all’entità del reddito prodotto.
Penso, ad esempio, a tante giovani studentesse e occasionali baby-sitter, ad altrettanti giovani o anziani dog-sitter, a episodici lavori di giardinaggio, hostess e steward per mostre e/o occasioni mondane, a “accompagnatori” per il disbrigo di alcune pratiche a favore di anziani, a lavoretti da parte degli stessi anziani e così di seguito. Il tutto attraverso il rispetto di precisi e rigorosi limiti; quali ad esempio la comunicazione preventiva agli uffici di competenza del ricorso ai voucher. Di contro, sebbene non abituato a esprimere certezze, sono sicuro che la loro abolizione non comporterebbe un solo posto di lavoro stabile in più.
Tutt’altra cosa sono le considerazioni da fare rispetto al referendum che chiede l’abrogazione dell’art.29 del decreto legislativo 276/03, attuativo della famigerata legge 30/03: quella, per intenderci, ancora oggi strumentalmente richiamata come “legge Biagi”. Anticipo che si tratta di uno di quei casi in cui è più concreto il rischio di cadere nell’errore di ritenere che ”in amore, come in guerra e in politica, tutto è concesso”.
Ci è caduto – per l’ennesima volta, a mio avviso – Pietro Ichino. Nella sua Newsletter nr. 420, richiamando un articolo pubblicato lo scorso 10 gennaio sul Sole 24 Ore, il senatore Pd, rispetto al merito del quesito sull’attuale disciplina degli appalti scrive:
“Esso mira alla soppressione di una norma contenuta nella legge Biagi del 2003 che attribuisce al sindacato la facoltà – la facoltà, si badi bene, non l’obbligo! – di contrattare <metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità degli appalti>, sostituendo una disciplina negoziata a una rigida norma legislativa che regola la materia. Un sindacato che propone questo è un sindacato che nega la propria funzione. Stupisce che a farlo sia la confederazione sindacale guidata in passato da Giuseppe Di Vittorio, da Luciano Lama e da Bruno Trentin. E ancor più che in essa non si levi neppure una voce di dissenso”.
Che cosa dire? Dalla Cgil non si leva alcuna voce di dissenso perché – evidentemente – sono tutti tesi a un obiettivo comune: la difesa e la tutela, per quanto oggi consentito, dei diritti dei lavoratori.
Dall’altro versante, nessuna sorpresa. Questa volta Ichino arriva al punto di chiedere, addirittura, che qualcuno – dall’interno della più illustre delle tre grandi Confederazioni sindacali – quella dei Di Vittorio, Lama, Trentin e di migliaia di altri degnissimi dirigenti e militanti – tradisca il mandato ricevuto dai lavoratori e si schieri al suo fianco; a sostegno delle “ragioni d’impresa”.
Come spiegare altrimenti che Ichino tenti di esaltare e contrabbandare per autentica “disciplina negoziata” la possibilità che oggi la vigente disciplina degli appalti vanifichi la corresponsabilità (entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto) dell’appaltatore, di eventuali sub-appaltatori e del committente imprenditore o datore di lavoro, nei confronti dei crediti retributivi e previdenziali di ciascun lavoratore?
Non è quindi un caso di semplice amnesia quello che lo induce a ignorare completamente la seconda parte del quesito che la Cgil pone agli elettori. Si chiede che il lavoratore che intenda recuperare mancate retribuzioni e mancati versamenti contributivi possa farlo – come avveniva prima della legge Fornero – citando in giudizio direttamente il committente, piuttosto che l’appaltatore o l’eventuale sub-appaltatore.
Oggi, invece – ed è questa la seconda parte della norma che la Cgil chiede di abrogare – l’azione esecutiva può essere intentata (dal lavoratore) nei confronti del committente solo dopo aver verificato il mancato accoglimento delle sue richieste da parte di tutta la trafila di eventuali sub-appaltatori. In termini molto semplici, la Cgil chiede di abrogare quella che è diventata una vera e propria via crucis per il malcapitato di turno.
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