L’imminente sciopero dei sindacati “unitari” in difesa della Rai, minacciata dal governo di un taglio di 150 milioni di euro, segna la ripresa in grande stile dell’iniziativa delle forze sociali dentro e attorno al servizio pubblico di radiotelevisione. Preceduto dalle domande preelettorali al premier del conduttore di Ballarò e dai segnali del sindacato unitario dei giornalisti interni, l’allarme è dato sulle sorti della Rai, sui posti di lavoro in pericolo, in specie nelle sedi regionali che rischiano un ridimensionamento. La presenza dei segretari nazionali darà la massima rilevanza a un’iniziativa che, in loro assenza, non si sarebbe notata, com’è accaduto negli scorsi venti anni nelle numerose occasioni pubbliche in cui i sindacati della Rai, non sempre vigorosamente sostenuti dalle confederazioni nazionali, hanno cercato di arrestare il declino industriale e il discredito editoriale del servizio pubblico. C’è da augurarsi che nell’agenda non spacchettabile delle riforme, ribadita da Matteo Renzi dopo le elezioni europee, trovino spazio anche nuovi indirizzi, se non proprio una nuova ragion d’essere della presenza pubblica in questo settore, così qualificante della nostra modernità. Quanto meno quelli elaborati e indicati in questi anni dagli organi dirigenti dei partiti che sostengono il governo e, in particolare, del maggiore fra essi, il Partito democratico, per l’attuazione dei quali abbiamo visto così efficacemente impegnarsi i loro rappresentanti nella commissione parlamentare competente e nello stesso CdA della Rai. Tenendo al riparo, già in questa fase straordinaria, attività e ruoli così preziosi per le libertà civili e per il pluralismo delle forze sociali e produttive, anche solo dal sospetto di
personalismi nella conduzione degli affari pubblici. Oltre tutto in una materia sottratta alla competenza del governo.
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