Nel 1955 segretario della DC era Fanfani. De Gasperi era morto l’anno prima, ed il nuovo segretario era impegnato a rottamare i degasperiani. Ma il presidente della Repubblica deve avere più di cinquant’anni, per cui, quando Einaudi giunse alla fine del suo mandato, per Fanfani fu difficile scegliere il successore fra i “giovani” di “Iniziativa democratica”. Optò quindi per Cesare Merzagora, un “tecnico” approdato alla presidenza del Senato nel marasma seguito alla “non vittoria” della Dc nelle elezioni del 1953. Fu così che in Parlamento si formò un blocco antifanfaniano (destra, sinistra e degasperiani) che portò al Quirinale Giovanni Gronchi.
Nel 1978 era stato assassinato Aldo Moro e Giovanni Leone era stato costretto alle dimissioni. Craxi, rimasto soccombente nello scontro che si sviluppò attorno alla vita e alla morte di Moro, colse l’occasione per rientrare in gioco e pretese l’elezione di un presidente socialista. La rosa che propose a Dc e Pci era composta da Giolitti, Vassalli e Pertini, e non era in ordine alfabetico. Ma quando di quella rosa gli altri scelsero l’ultimo petalo non fece i capricci, e tesaurizzò il risultato politico.
Renzi deve scegliere fra questi precedenti. Oggi infatti ci sono molte delle condizioni che sessant’anni fa favorirono la formazione del blocco antifanfaniano (mentre, con buona pace di Vendola e Civati, non ci sono quelle per formare il blocco “no-nazareno”). E ci sono anche le condizioni per chiudere i giochi al primo scrutinio, che per Renzi, col Parlamento ingovernabile che si ritrova, sarebbe un eccellente risultato politico. Tertium non datur. Non datur neanche l’ipotesi di scavallare i primi tre scrutini con un candidato “di bandiera”, almeno da quando, nel 1992, si indugiò nella scelta del candidato di Dc e Psi, consentendo così alle rispettive dissidenze di certificare fin dal primo scrutinio il loro potere di ricatto.
Nel 1999 il segretario dei Democratici di Sinistra era Walter Veltroni, il capo del governo Massimo D’Alema e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi. Nel paese reale, che qualche volta si fa sentire, ma ha bisogno di essere sollecitato, cresceva la candidatura di Emma Bonino. Veltroni prese un’iniziativa tanto sorprendente quanto intelligente. Stilò dieci punti che delineavano in maniera chiara, esauriente e condivisibile le caratteristiche di un buon Presidente della Repubblica. A mio modo di vedere, quelle caratteristiche si attagliavano anche a Emma Bonino, certo più laica e con una storia più politica e persino più “europea” di Ciampi. Comunque, Veltroni riuscì nell’impresa di fare eleggere Ciampi al primo turno con il voto anche dei berlusconiani. Ciampi fu un Presidente non di parte, ma sostanzialmente privo di potere politico personale e, come avrebbe dimostrato, costretto a fare fin troppo affidamento sui suoi collaboratori.
Nel 2015, il segretario di un partito con una rappresentanza parlamentare gonfiata dal premio di maggioranza sta cercando un Presidente di garanzia, vale a dire che garantisca sia lui stesso sia Silvio Berlusconi (ma anche per mettere in riga la minoranza del Partito democratico). Non c’è metodo; non ci sono criteri. E’ in gioco il suo potere personale. Qualche gufo potrebbe (giustamente) aggiungere che sono in gioco la governabilità e la democraticità del sistema politico italiano.
Come spesso gli avviene, Covatta scrive cose non solo intelligenti, ma politicamente calibrate: si vede una vecchia esperienza, filtrata e temprata nel tempo e divenuta strumento per analisi razionali. Per questo sono convinto che la vicenda del presidente della Repubblica non seguirà il percorso secondo queste stesse logiche (e optando conseguentemente tra le alternative enucleate da Covatta). Sempre più, come storico che lavora professionalmente su terreni molto lontani dal presente, mi sono convinto del potente fattore d’irrazionalità che nella storia è introdotto dal ruolo delle personalità. Quel ruolo che la mia generazione nella seconda metà del secolo scorso aveva praticamente soppresso in nome delle grandi forze che impersonalmente determinavano il processo storico.
Di qui la rilevanza della personalità di Renzi, che sempre più vedo assomigliare a Craxi quanto a capacità tattica e forza decisionale, ma che, a differenza di Craxi, è incapace di governare perché privo (e non desideroso) di grandi ministri con ampia delega: e quindi spinto ad una concentrazione parossistica del potere puro nelle sue mani: un Erdogan, non un Craxi, perché quest’ultimo era intimamente plasmato dalla cultura politica in cui s’era formato e non intendeva rompere con essa (di qui la vera e propria falsificazione, non priva di conseguenza pratiche, delle vignette che lo dipingevano in camicia nera e in stivaloni).
Renzi – che s’è formato fuori e contro la cultura politica dominante nel Pd e nei suoi antecedenti storici – giocherà il tutto per tutto: e questo è un male sia che vinca sia che perda. Se vince, la risposta al vuoto della politica sarà un’enorme concentrazione di potere non gestito, senza politica. Se perde, sarà la rivincita della stagnazione e un un ulteriore passo verso la dissoluzione stessa della politica. La crisi italiana non è in via di superamento.
Ci sono tre “politici” che oggi presentano le migliori credenziali per la Presidenza, e non credo ci sia bisogno di spiegare perché: Amato, Prodi, Veltroni. E due sono i principali kingmakers, Renzi e Berlusconi. Prodi è eliminato dall’ostilità dell’intero universo di centrodestra e Renzi ha bisogno dei loro voti. Amato –con le credenziali migliori sotto il profilo della competenza e del riconoscimento al di fuori dall’Italia- è favorito dal centrodestra e credo non incontri un’ostilità di principio da parte di Renzi. Ma Renzi forse non avrà il coraggio di farne il suo candidato, contro l’ostilità di parte del suo partito e il furore di 5 Stelle, Lega e degli indignati in servizio permanente effettivo. Peccato, con Amato –al di là della sua competenza- chiuderemmo la fase più sgangherata della seconda Repubblica. Resta dunque Veltroni, se Renzi riesce a farlo passare con Berlusconi: e a farlo passare nel suo partito, contro la prevedibile ostilità di D’Alema. Se no si deve passare a candidati più che decorosi, ma con credenziali meno forti, come Mattarella, o a un tecnico (Sabino Cassese sarebbe il meglio): ma tutto si complica.
L’esperienza recente e positiva nella elezione del presidente della Repubblica (con Ciampi e con , Napolitano) contraddice apertamente i criteri di “gradimento” che sembrano affacciarsi oggi per la scelta dei candidati. Parlo non solo di chi invoca un “no” assoluto alla politica (come i grillini), ma anche di quello che sembra essere l’orientamento di Renzi. Dico “sembra” perché risulta soltanto da alcune indiscrezioni che andrebbero poi verificate. In base a queste indiscrezioni i candidati sarebbero valutati non tanto per le loro competenze quanto per il loro rendimento elettorale: Renzi cioè immaginerebbe, secondo questa versione, il presidente come un prolungamento dell’azione e soprattutto dell’immagine del governo. Ora, non giova certo a facilitare una scelta il fatto che la minoranza del Pd in questi mesi abbia mostrato di avere come unico obiettivo quello di ostacolare in Parlamento il cammino del segretario del proprio partito. Non è una novità nella storia della Repubblica, ma di questi tempi l’autolesionismo può produrre danni più gravi che durante i decenni dominati dalla Dc e dalle sue molteplici correnti. E questa condotta può indurre ad errori sia chi la tiene, sia chi la avversa.
Vale la pena allora di ricordare che l’elezione del presidente è di secondo grado e dunque costituzionalmente sottratta al giudizio diretto degli elettori. E infatti questo metodo ha portato alla massima carica dello Stato Ciampi e Napolitano, due figure che difficilmente avrebbero trionfato in una gara elettorale per la leadership: Ciampi veniva dalla Banca d’Italia, Napolitano ha avuto una gloriosa carriera parlamentare, ma da riformista coraggioso quale è sempre stato non veniva generalmente acclamato come capopopolo. Eppure entrambi hanno dato – forse anche per queste loro caratteristiche di appartenenti all’élite “antipopulista” – buona prova di equilibrio e sapienza istituzionale. Avevano insomma le doti per gestire situazioni difficili con grande talento e anche con creatività, grazie alla loro formazione, cultura, preparazione internazionale, prestigio nel mondo.
L’idea di collegare la scelta del candidato al Quirinale al livello di consensi di cui il governo, ogni governo, ha bisogno – tema che sembra affacciarsi tra i renziani – non sta dunque in piedi neanche un po’, trattandosi appunto di una scelta da condividere con l’opposizione. In tempi di forte ventilazione populista nei discorsi pubblici – ad opera di movimenti specializzati e di giornali, come Il Fatto, che ne fanno la propria bandiera non c’è occasione migliore di questa per sottrarre una scelta chiave per la Repubblica alla bagarre mediatica e ai “no nazareno”. E anche per sottrarre lo stesso Renzi alle vendette incrociate della vecchia guardia Pd. Valga dunque come criterio quello delle qualità del candidato: cultura istituzionale, affidabilità democratica, capacità di garantire tutti gli italiani e di difendere il paese in Europa in fasi che saranno ancora economicamente tempestose, profilo internazionale chiaro e forte. Io vorrei anche che continuasse a sostenere e difendere l’azione riformatrice che il governo ha intrapreso, così come, fin quando ha potuto, ha fatto Napolitano. Non è difficile dare a questo candidato, in primo luogo, il nome di Giuliano Amato, anche perché sembra possibile radunare intorno al suo nome una maggioranza molto ampia fin dall’avvio.
Sono sostanzialmente d’accordo. In particolare credo che Renzi non possa assolutamente lasciare che passino i primi tre scrutini senza impegnare da subito il pd su un nome. Se infatti al primo scrutinio si gingilla sul cosiddetto “candidato di bandiera” (ammesso che ci sia, e ne dubito), che non può che NON essere il suo candidato vero, il quale riesca a fare i suoi onesti 350-400 voti, c’è il pericolo che al secondo scrutinio arrivino 100-120 voti che portino il suddetto già vicinissmo alla soglia dell’elezione quando il quorum cala. E a quel punto per Renzi sarebbe difficilissmo raddrizzare la barca. D’altra parte io credo che messo alle strette tra un candidato che piaccia anche a B ma spacca il Pd e un candidato che invece non spacchi il Pd egli per mille ragioni non possa che scegliere quest’ultimo, infischiandosene momentaneamente del patto del Nazareno. Vedo un solo nome che potrebbe andare bene a Renzi e in fondo a tutto il Pd e Sel e al centro senza dispiacere troppo a Berlusconi: Chiamparino.
Le considerazioni di Luigi Covatta sulle modalità con cui si sono succedute le elezioni del Presidente della Repubblica in Italia sottolineano, se mai ve ne fosse bisogno, che l’elezione della massima carica dello Stato, di solito, non avviene mai nell’esclusivo interesse dei cittadini; a causa di una Costituzione che risente delle condizioni che erano proprie del momento in cui è stata scritta e adottata, l’elezione è utilizzata per consumare “vendette” politiche all’interno delle correnti dei singoli partiti o tra i vari partiti chiamati ad esprimersi. Ciò sta solo a sottolineare la necessità che la Costituzione repubblicana sia quanto prima modificata, non riguardo ai principi generali che la sottendono, ma riguardo al funzionamento delle istituzioni ed alle modalità con cui sono scelte le persone nelle quali si incorporano, scelte perché le facciano funzionare nell’interesse di tutti. La necessità di una riforma delle nostra legge fondamentale emerge con tutta evidenza in occasione dell’imminente elezione del nuovo Capo dello Stato; per il ruolo e la funzione che sarà chiamato a svolgere, la sua elezione dovrebbe essere sottratta all’”alchimia” dei calcoli politici dei partiti.
La preoccupazione che ciò non avvenga è particolarmente avvertita in Italia in questo particolare momento, dove si dà il caso, mai sperimentato forse nella storia dei Paesi di provata democrazia, che un Parlamento parzialmente delegittimato possa esprimere Colui che sarà destinato a garantire l’Unità del Paese e il rispetto della Costituzione attraverso il concorso di partiti che, anziché avere a cuore il bene del Paese, pensano solo ad accordi di potere.
Di fronte a questa situazione, la scelta, tra i nomi che “corrono”, di quello del nuovo Presidente impone che siano messe da parte le “maglie e le beghe” di partito, per agire nell’esclusivo interesse del Paese. Se questa fosse la reale propensione dei partiti, la convergenza sul nome dei candidato all’alta carica non potrebbe che orientarsi verso il personaggio che, per autorità professionale e credibilità internazionale, non ha rivali: Giuliano Amato.