La vicenda si può riassumere brevemente così. Il 25 giugno 1993 il Parlamento “smontava” l’architrave della legge di riforma della Rai del 1975, che affidava l’elezione il consiglio di amministrazione della Rai ai rappresentanti dei partiti (il famoso numero telefonico 643111, struttura portante della “prima Repubblica”). Con una legge di cinque articoli, la n. 206 del 1993, si traeva il bilancio di diciotto anni di esperienza: un diverso CdA, “composto di cinque membri, nominati con determinazione adottata d’intesa dai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, scelti fra persone di riconosciuto prestigio professionale e di notoria indipendenza di comportamenti, che si siano distinti in attività economiche, scientifiche, giuridiche, della cultura umanistica o della comunicazione sociale, maturandovi significative esperienze manageriali”.
I compiti del nuovo Consiglio, “nel quadro di una ridefinizione del sistema radiotelevisivo e dell’editoria nel suo complesso”, erano così definiti: “Avvalendosi di proposte del direttore generale, elabora e approva il piano editoriale, nel rispetto degli indirizzi formulati dalla commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi […] e approva i piani annuali di trasmissione e di produzione dell’azienda e le variazioni che si rendano necessarie”. Questa normativa è rimasta in vigore per undici anni, accompagnata dalle prassi del più rigoroso spoils system del maggioritario, di cui i Presidenti di Camera e Senato si fecero notai e garanti. Fino all’approvazione della legge n. 112/2004, cd. Gasparri, che all’art. 20 c. 9 ha affidato alla Commissione parlamentare la nomina di sette consiglieri sui nove, gli altri due essendo nominati dal governo. Quando ha legiferato, la “seconda Repubblica”, per questo aspetto è tornata al 1975.
Nel corso degli anni non risultano tracce di un confronto interno (né di decisioni) dei partiti di volta in volta al governo e all’opposizione sull’utilità pubblica e la valenza strategica di questo assetto di poteri dell’impresa pubblica e di responsabilità politiche per quel che riguarda l’industria audiovisiva italiana e il sistema della comunicazione all’avvio del XXI secolo.
Da alcuni mesi il “cambiare verso” di Matteo Renzi accarezza (per molti minaccia) anche la Rai, e da alcune settimane si sviluppa la “comunicazione” circa una nuova legge, se non anche un decreto-legge, di “riforma” della Rai. Della direzione del cambiamento si intuisce qualcosa, anche se non si sa dove si va a parare: mentre si pensa di guadagnare il consenso dei cittadini con la riduzione pro capite di una tassa (il canone).
Il 3 marzo il presidente della Commissione parlamentare, Roberto Fico, del Movimento 5 Stelle, ha proposto di (ri)togliere i partiti dal CdA della Rai: “Cinque consiglieri selezionati per aree di competenza attraverso avviso pubblico e sotto la regia dell’Agcom; presidente indicato dal ministero dell’Economia; soppressione della Vigilanza”: questa in sintesi, nei giornali, la novità. Il 4 marzo il leader maximo del M5s ha proposto su questa linea al Pd un’alleanza strategica, quasi di governo. Il 5 marzo il Presidente del Consiglio ha pensato bene di far sapere di essere “pronto a discutere sulla Rai con il M5s: le nostre porte sono aperte”. (segue)

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