Pompei continua lentamente a sciogliersi. Nell’occasionale pianto peloso di governi, ministri, soprintendenti, università, televisioni e stampa. Perché?
Per quattro ragioni, soprattutto. Primo, lo storico dilettantismo delle soluzioni tecniche adottate per i restauri: ad esempio, il cemento armato usato come piovesse nei restauri strutturali. Un dilettantismo peggiorato dal continuare imperterrite, le istituzioni di tutela, a confondere la conservazione con il restauro e il restauro con il restauro estetico. Senza rendersi conto che nella maggior parte dei casi i restauri, con il loro inevitabile aggiungere nuove sostanze nel già eterogeneo insieme di materiali e strutture che costituiscono le opere d’arte, ne accelerano il degrado; e senza rendersi conto che l’unica, vera, nuova e decisiva partita che il patrimonio artistico ha davanti è la sua conservazione in rapporto all’ambiente.
Secondo, lo storico dilettantismo venuto all’azione di tutela dall’aver mantenuto in vita fino al 2004 una legge, la 1089 del 1939, pensata per l’Italia del re e del duce, oltre che per un paese intatto dal punto di vista ambientale: legge a cui anche il nuovo Codice si è largamente ispirato, e legge priva di un’indicazione o anche di un semplice accenno ad altri modi d’esercitare la tutela in aggiunta a un lungo elenco di provvedimenti puntiformi in negativo quali notifiche, vincoli, divieti e altre simili limitazioni d’uso, così come a un qualsiasi accenno al rapporto tra patrimonio artistico e ambiente.
Terzo, lo storico dilettantismo con cui si continua a pretendere di conservare una città, quale prima di tutto Pompei è, trattandola come una rovina, quindi lasciandone le domus senza tetti, finestre, porte, sistemi di smaltimento delle acque meteoriche, fogne e quant’altro: quasi che il degrado delle opere d’arte e dei monumenti non venisse, come invece è, sempre e solo da questioni ambientali.
Quarto, lo storico dilettantismo con cui il Ministero dei beni culturali continua a trattare il tema della salvaguardia e della cura del patrimonio artistico nel nome del crociano “l’arte tutti sanno cosa sia”, concludendone che perciò chiunque è in grado di occuparsene. Come Pompei per prima insegna, ex prefetti, generali dei carabinieri, city manager, soprintendenti formati nel verbo del Convegno del 1938 (76 anni fa), eccetera.
Soluzioni? Che qualcuno – un governo, un ministero dell’Università, un ministero dei Beni culturali, insomma qualcuno – inizi a formare delle figure professionali finalmente in grado di fare del patrimonio artistico non più solo un oggetto di studio o di delibazione estetica, ma anche il momento dell’integrazione materiale del passato nel divenire dell’uomo: quel che oggi può accadere solo attraverso la ricerca scientifica e lo sviluppo, perché è solo nella dialettica tra conservazione e sviluppo che le esigenze creative della società possono avere le più ampie libertà d’azione. Né mai dimenticando che è solo sul piano della società che si decide in concreto il destino di tutto, quindi anche dell’arte del passato.

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