Dell’assassinio di Kennedy seppi quasi in diretta, per quanto dirette potessero essere le informazioni cinquant’anni fa. Ero al telefono col direttore di un quotidiano, che ricevette l’Ansa mentre parlava con me. Il quotidiano era quello della Curia milanese, L’Italia, e il direttore era Giuseppe Lazzati, uno dei professorini che con Dossetti aveva partecipato alla Costituente. Io ero a Castelveccana, sul Lago Maggiore, dove noi fucini, insieme coi primi seguaci di don Giussani, eravamo stati mandati dalla stessa Curia per dirimere le aspre controversie che ci dividevano sul tema della laicità della politica: e di questo appunto riferivo a Lazzati, che una decina d’anni prima aveva messo il tema all’ordine del giorno col saggio su Azione cattolica e azione politica.
Alla notizia Lazzati reagì scartando subito la dietrologia, e puntando invece il dito contro la cultura del Far West, che a suo giudizio (non esente da eurocentrismo) permeava ancora la società americana. Me ne ricordai nelle settimane successive, quando un editore, benché avessi solo vent’anni, mi ingaggiò per compilare un instant book ante litteram sulla vicenda del presidente americano (cinquant’anni fa capitava anche questo, e capitava perfino che il lavoro intellettuale dei giovani non venisse retribuito in nero).
Me ne ricordai anche quando un altro assassinio, quello di Moro, interruppe la linearità di un processo politico. Non che non vedessi le trame che si sviluppavano sotto il tavolo: ma capivo che senza un Moretti (o un Oswald) che agiva sopra il tavolo quelle trame non avrebbero avuto ragion d’essere. E capii anche quali sono i limiti di quella azione politica di cui a vent’anni rivendicavo l’autonomia, e che poteva essere annullata da un gesto individuale partorito dalla pancia di una cultura latente: come è quella di un album di famiglia, del Far West o del bolscevismo che sia. Ed ora capisco anche che di quei limiti, paradossalmente, non tiene conto invece l’antipolitica: che imputa ai “politici” ogni colpa – dell’alluvione sarda o del blocco dei mezzi pubblici a Genova – nella convinzione iperpolitica che la politica possa cambiare ogni cosa, compresi gli album di famiglia degli abusivi “per necessità” e delle aziende pubbliche dissestate dalle assunzioni clientelari.
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