Fra le tante scemenze che hanno inevitabilmente riempito le cronache degli scrutini a vuoto per l’elezione del Capo dello Stato spicca quella secondo cui il ministro dell’Interno non può non votare il nuovo inquilino del Quirinale. Si tratta, come è evidente, di una pietosa scemenza volta a giustificare il comportamento ondivago di Alfano e dei suoi cari. Ma non per questo può passare inosservata.
Fermo restando che il voto è segreto anche per i ministri dell’Interno, si può osservare che Mario Scelba, il quale stava al Viminale sia quando venne eletto Einaudi che quando venne eletto Gronchi, nel secondo caso non si pose neanche il problema. Non si sa se Taviani votò per Segni, ma si sa che Segni scavalcò Taviani nei suoi rapporti col generale De Lorenzo: e probabilmente per questo (non certo per obbligo istituzionale) lo stesso Taviani non fu ostile, due anni dopo, all’elezione di Saragat. Restivo, Rognoni, Scalfaro, Scotti e Jervolino (rispettivamente in carica in occasione dell’elezione di Leone, Pertini, Cossiga, Scalfaro e Ciampi) non hanno sentito l’esigenza di tramandare ai posteri il loro gradimento. E quando, nel 2006, venne eletto Napolitano, era ancora in carica Beppe Pisanu, che avrà votato scheda bianca come gli altri di Forza Italia.
Resta da dire che le pietose scemenze difficilmente possono nascondere il nullismo politico. E che Renzi, nei prossimi mesi, dovrà fare i conti anche col nullismo politico dei suoi alleati.
Concordo sull’ottusità della teoretica della necessaria consonanza di voto sul Quirinale del titolare del Viminale (che tra l’altro, nelle votazioni al pelo, avrebbe dovuto munirsi del pendolo dell’indovino). Se proprio si vuole andare alla ricerca dei precedenti, ne ricercherei di un po’ più perspicui. Per esempio, Scelba che va da De Gasperi a certificare che la legge maggioritaria del 1953 non era scattata per una 54mila voti, in un’epoca in cui il ministro di polizia era anche il referente del “blocco d’ordine”: eppure non si sognò neppure di esporsi dinanzi alla carriera prefettizia con richieste men che ortodosse, pur sapendo che sanciva la fine politica del primo presidente del consiglio del dopoguerra repubblicano e suo mentore dc. Oppure, Pisanu convocato a palazzo Grazioli nel 2006, che rifiuta di avanzare la proposta di un decreto-legge per il riconteggio delle schede che davano Prodi in testa per 24mila voti (sia pure dietro l’ipocrisia, tutta ex DC, che al Quirinale Ciampi non l’avrebbe mai controfirmato). Il test interessante sarebbe il confronto dell’attuale inquilino del Viminale con questi precedenti di dialettica col capo del Governo: che avrebbe fatto, in circostanze analoghe?
Caro direttore,
certo Alfano, deputato e ministro, aveva tutto il sacrosanto diritto di votare come meglio riteneva. Non a caso il voto per l’elezione del presidente è segreto.
Ma sul piano sostanziale: ha votato tirato per la giacca, dopo numerose dichiarazioni contrarie e si lascia alle spalle un’immagine di debolezza, confusione e soprattutto un partito, l’NCD, frantumato.
Se si fosse rapidamente intestata l’elezione del Presidente della Repubblica, indicato da Renzi e da tutto il PD, avrebbe oggi un altro ruolo politico. Aveva la strada facilitata anche dalla scelta di un suo conterraneo.
Capacità politica non è solo fare scelte vincenti ma anche saper dare risposte vincenti nelle situazioni più difficili.
Un’ultima considerazione: i numeri due scelti da Berlusconi appaiono alla prova dei fatti sempre modesti; vale ricordare Machiavelli che invitava a misurare la cifra di un potente guardando chi si mette intorno.