Era il 1951 quando tre ragazzi bolognesi – Federico Mancini, Nicola Matteucci e Luigi Pedrazzi – fondarono “Il Mulino”. Mancini era socialista, Matteucci liberale e Pedrazzi cattolico. In quegli anni di ferro e di fuoco non solo dialogavano fra loro, ma pretendevano di influenzare la cultura politica italiana partendo proprio dalla rossa Bologna, dove il sindaco Dozza regnava indisturbato e dove gli americani avevano collocato la sede italiana della Johns Hopkins University nella stessa logica con cui si aprono le missioni in partibus infidelium.

Per la mia generazione, che alla fine degli anni ’50 cominciava a masticare di politica, quella rivista – insieme con “Il Mondo” di Pannunzio e “Politica” di Pistelli – fu un punto di riferimento fondamentale nel lungo cammino che avrebbe portato alla “apertura a sinistra”. E per la generazione precedente – chiamata a sperimentare sul terreno idee riformiste poco frequentate dagli italiani – fu fonte significativa di ispirazione.

Con Pedrazzi non sempre andavo d’accordo. In particolare lui non apprezzava i tentativi di rompere l’unità politica dei cattolici di cui anch’io, nel mio piccolo, ero protagonista. Così come non apprezzava le analisi sul “partito cristiano” che da un altro versante conduceva Gianni Baget Bozzo negli anni ’70. Ma non era affatto un clericale: della Dc apprezzava soprattutto il ruolo di equilibrio che essa esercitava in un contesto politico le cui anomalie proprio “Il Mulino” mensilmente documentava. Per cui non si fece incantare neanche dal compromesso storico.

Se n’è andato a novant’anni. L’ultima volta lo avevo visto quando organizzammo la festa nazionale dell’Avanti! a Bologna. Era il sessantesimo anniversario della fondazione della sua rivista, e mi sembrò giusto ricordarlo anche in quella sede. Arrivò a Borgo Panigale guidando la sua Cinquecento, con la stessa leggerezza di spirito con cui sessant’anni prima aveva gettato un sasso nello stagno della politica d’allora.