La geografia interna del Pd sta cambiando, seppur a piccoli passi. Il “patto di sindacato” che ha finora retto quel partito era espressione di una vera e propria deriva correntizia. La parola “derivare” racchiude in sé due aspetti: scaturire, da un lato, e andare alla deriva, degenerare, dall’altro. Ecco, la situazione del Pd era prossima all’assurdo: una forza politica che non riusciva a essere compiutamente “partito” attraversata da correnti senza leader, le quali sopravvivevano a se stesse per inerzia, lontane dall’attualità del confronto di idee ed esponenti. Una sorta di film privo di corrispondenza fra immagini e sonoro.
Negli ultimi giorni, anche grazie al modo col quale Guglielmo Epifani va tratteggiando lo scenario congressuale (si pensi alle primarie aperte), il dibattito sta assumendo contorni più credibili. A un’area Bersani, volta a sostenere una guida collegiale del Pd e timorosa della sua identificazione con un leader, si affianca l’area Renzi, preoccupata non solo di proporre il primo cittadino di Firenze come segretario, ma anche di promuovere un diverso gruppo dirigente, al di là degli schemi e delle logiche di quel “patto di sindacato”, per l’appunto, che incarnava la continuità del partito (e qui, non senza ironia, andrebbe usata la P). E poi vi è il neonato gruppo dei “dem liberi”.
Naturalmente come di consueto – accadeva anche al Pci – dinanzi a una società che corre (ora troppe volte non certo in avanti) “il partito” lentamente cammina. Comunque si muove. Non mancano accelerazioni e lacerazioni, anche assai dolorose; però paiono legate più al dramma (pensiamo alle ore concitate dell’elezione del Capo dello Stato) che a scatti virtuosi. Come se la dimensione del tragico dovesse governare i destini della sinistra, alternandosi al grigiore della maggior parte dei giorni.