Noi, noi della sinistra italiana, abbiamo da qualche tempo difficoltà con le parole. Non è che si sia improvvisamente diventati afasici o balbuzienti, oltre ad essere brutti e cattivi; è che viviamo un processo di cambiamento, dentro e fuori di noi, che ha reso ( almeno così pensiamo) inservibili le parole che definivano nel passato il nostro essere e il nostro volere mentre altre, pur apparentemente attuali, sfuggono al nostro controllo e altre ancora, su cui ci siamo attestati, non riescono ad avere un valore evocativo e mobilitante adeguato alle nostre necessità.
Cos’è accaduto? E per quali motivi è accaduto?
Ci si dirà che la faccenda è molto semplice. Che la sinistra, e in particolare quella italiana, era “portatrice sana”di quel brutto morbo che si chiama ideologia; che l’ideologia è definitivamente crollata; e che, pertanto, è del tutto naturale che ci si trovi oggi a corto di parole.
In realtà, è questa spiegazione che è troppo semplice. Non è affatto detto, innanzitutto, che le ideologie, intese come schemi prefabbricati di interpretazione della realtà, siano tramontate, al contrario. Ma anche senza addentrarci in questo dibattito, possiamo comunque constatare che lo stato di salute delle nostre parole dipende non poco dalla collocazione politica di chi le pronuncia; così, tanto per fare un esempio, mentre “movimento operaio” (M.O., per gli addetti ai lavori) è ormai relegato in un archivio polveroso, “Padania”circola e come, sia pure accompagnata dai sorrisetti di scherno dei miscredenti.
Ma torniamo alle nostre parole inservibili. Perché ce ne sono tante; e di gran peso. A cominciare da “comunismo”; parola, e cosa, non solo ripudiate, come è giusto, ma, come dire, mai esistite. Curiosamente, poi, “comunismo” trascina con sé nell’Ade anche “socialismo”, insieme alla cara e del tutto innocua “socialdemocrazia”; un tempo unanimemente sbeffeggiata e disprezzata in quanto simbolo della compromissione gretta e bottegaia con il capitalismo, oggi sospetta senza motivo o magari perché incompatibile con lo stesso capitalismo.
Potremmo aggiungere – con un tantino di malignità – che il riflusso o, più esattamente il riposizionamento identitario, ha lambito anche la parola “sinistra”, demonizzata dai suoi oppositori e usata con parsimonia dai suoi naturali fruitori; ma ci fermiamo qui. Richiamando, in conclusione, l’abbandono di qualsiasi termine conflittuale: da “classe”a “padroni”. Un fatto legato ad un altro, e più complesso, processo di revisione su cui torneremo tra poco.
Veniamo, ora, alle parole che “sfuggono al nostro controllo”. Pensiamo, in particolare, a “popolo” e a “riforma”nelle sue, diciamo così, “articolate varianti”.
“Popolo”è una parola che ci è appartenuta per oltre cent’anni, dalla rivoluzione francese in poi. Era la rappresentanza dei più contrapposta ai privilegi dei pochi; era il mondo dei poveri e degli sfruttati contrapposto al potere degli oppressori. Poi sono arrivate, però, le grandi ideologie totalitarie nazionaliste e razziste che hanno rivendicato questa rappresentanza, e,ancora dopo, le pulsioni populiste che hanno addirittura ribaltato i termini del problema: loro a fianco della maggioranza silenziosa, a difesa di principi e di valori; la sinistra, per giunta “radical-chic”in rappresentanza dei salotti e dei poteri forti.
In ogni caso una parola potenzialmente tossica; e quindi da usare con cautela. Non a caso ( stiamo sempre parlando dell’Italia), il termine è oggi declinato al plurale. Non più “il”popolo ma i popoli: quello de fax, quello arancione e quello viola ( meglio evitare i colori forti o caratterizzanti: rosso, nero, bruno), quello dei girotondi; così come quello padano e dei sondaggi.
La parola riforma (per tacere dei riformisti) è poi anch’essa divenuta totalmente inutilizzabile; almeno a sinistra; anche per l’uso spesso smodato di cui è stata oggetto da parte di altri.
Come si sa, il termine è stato a lungo osteggiato, nel suo “habitat”naturale; e questo anche quando erano venute meno da un pezzo le ragioni dei suoi avversari (rivoluzionarie no semplicemente massimaliste che fossero). Ed è allora successo che, quando queste preclusioni son cadute (diciamo verso la fine degli anni ottanta), la parola e la cosa erano pronte per essere usate o, più esattamente, declamate dalla parte avversa. In definitiva, la sinistra può, oggi, definirsi riformista quando e quanto vuole; ma non può ignorare che questa sua rivendicazione è in qualche modo, controproducente per il suo elettorato. E questo per due ragioni: perché le riforme, quelle fatte e/o annunciate dal centro-destra sono percepite da molti di noi come una fregatura; mentre non è poi affatto chiaro dove e come il nostro riformismo annunciato differisca sostanzialmente da quello praticato dagli altri. Per quello che vale potremmo allora definirci “conservatori” – diritti, dell’ambiente, dello stato sociale – ma siamo ancora troppo ideologicamente pudibondi per farlo.
E, allora; una resa senza condizioni alle ragioni dei nostri avversari, magari propiziata da “agenti del liberal-liberalismo” (come Blair o Schroeder)?
La realtà è un po’ diversa. In realtà, la sinistra non si è dichiarata sconfitta nel confronto; l’ha, piuttosto, spostato su di un terreno del tutto diverso.
Per dirlo in estrema sintesi, mentre la sinistra tradizionale puntava sulla costruzione di una società diversa in una logica di differenziazione se non di conflitto, quella attuale mira ad orientare, verso un ordine mondiale più efficiente e più giusto gli sviluppi della società attuale, e in una logica di solidale collaborazione.
Questo nuovo universo di riferimento sarà allora circoscritto da nuove parole: solidarietà, appunto, e poi accoglienza, pace, democrazia, legalità, istituzioni, Onu, Europa, diritti, dialogo, multiculturalismo; e potremmo continuare. Tutte parole che, a ben vedere, hanno lo stesso segno e la stessa matrice; quella del “politicamente corretto”o, nella versione europea, del cosiddetto “buonismo”.
I “realisti devoti”, feroci contestatori dell’uno e dell’altro, sottolineano una sorta di continuità logica dei due approcci, all’insegna di una comune volontà censoria; de nomi e delle cose. Ma non è propriamente così, perché, in America abbiamo una sorta di igiene del linguaggio; mentre, nel caso europeo, si registra la volontà politica e morale di fare definitivamente i conti con un passato di odi e di divisioni, culminato nel dramma di due guerre mondiali.
Un disegno, già definito nel progetto europeo del secondo dopoguerra, ma che raggiunge la sua maturazione definitiva con il crollo del muro di Berlino. Ed è in questa circostanza che il progetto acquista la sua definitiva base politica: con l’intesa totale tra una borghesia (“illuminata”oppure “sensibile”) oramai liberata dalla paura del comunismo e una sinistra, alla ricerca di una sua nuova missione.
Ora, in questa alleanza, la sinistra democratica offre la leadership politica ( da Blair a Fischer, da D’Alema a Schroeder a Cohn Bendit) e la borghesia “liberal” la base ideale e morale.
Ad essa appartengono dunque le parole che abbiamo ricordato prima, e soprattutto la visione del mondo che vi “sta dietro”. Una visione: che sottopone il reale all’ideale; che considera i diritti come punto di forza delle categorie deboli e discriminate, che ha come punto fermo le istituzione e le regole; che rifugge dallo scontro e, a maggior ragione, dalla violenza perché ha in orrore l’idea stessa di conflitto,; che assume come base indiscussa dei suoi orientamenti l’internazionalismo, i processi cui da luogo, e le istituzioni che lo regolano, che, infine, antepone automaticamente i “valori”agli interessi.
E però queste parole (pensiamo, in particolare, a “solidarietà” e ad “accoglienza”; ma anche, nella sostanza, ad “internazionalismo”) sono ogni giorno battute in breccia; tanto da avere sempre più difficoltà a penetrare nel nostro “popolo”. E qui, attenzione, il punto debole non sta nelle parole, ma nelle cose.
Insomma “pace”, regole”, “istituzioni”, solidarietà”, “internazionalismo”, “diritti”non sono una litania rassicurante ed ipocrita. Corrispondono, invece, a tante scommesse sul futuro e sulla possibilità di costruirlo in modo razionale. In un contesto in cui, invece, l’Italia e l’Europa, e soprattutto i loro ceti popolari, vedono l’internazionalizzazione in termini di minaccia incombente e di conflitto reale. E viene constatato, quotidianamente, che le classi dirigenti europee e le istituzioni internazionali non sono all’altezza degli ideali che professano e degli obbiettivi planetari che si sono assegnati.
E, allora, in definitiva, la nostra situazione sul mercato politico delle parole, con le relative difficoltà, corrisponde ad una fase di transizione. Una situazione in cui il nostro vecchio armamentario è stato (forse troppo frettolosamente) messo da parte perché superato, mentre il nuovo appare lungi dal trovare strumenti e progetti che possano incidere sulla realtà.
Stiamo, insomma, in mezzo al guado; anche se, forse, non ce ne rendiamo conto a sufficienza.