Giorni fa Paolo Mieli sosteneva che il premier Renzi facesse bene a non soffermarsi troppo sulla propria identità politico-culturale, soprattutto perché siamo all’inizio di un ciclo politico inedito. Eventi come Bad Godesberg, in Germania, invece, piuttosto sancivano la conclusione di una fase.
A parer mio per il leader dem l’insidia è soprattutto un’altra: la perdita di senso delle parole, il loro apparire gusci quasi vuoti. Se l’ex sindaco di Firenze dicesse ciò che è – un liberale di sinistra – cosa giungerebbe alle orecchie dei più? Il solito bla bla. Così egli da un lato comunica con i fatti (anche raccordandosi con gli eurosocialisti), dall’altro non rinuncia a evocare i grandi sogni del Novecento, a iniziare dagli Stati Uniti d’Europa. Evitando, però, di etichettarli e di rinchiuderli in una definizione.
Ѐ la grande contraddizione nella comunicazione politica del nostro tempo: i cittadini attendono messaggi forti, sollecitazioni che li motivino; d’altro canto è forte e diffuso l’atteggiamento scettico e disincantato verso qualsiasi cosa si dica e si proclami. Oggi Renzi prova a far leva sulla cultura e sul binomio sicurezza-cultura. Cinema, teatro, mostre, biblioteche, musei e tanti altri sono luoghi di cultura, ove si cresce umanamente e culturalmente. E la cultura politica, verrebbe da aggiungere? Prima o poi il segretario non potrà eludere tale nodo, né limitarsi a parlare con gli atti concreti. Giunge per tutti il momento dell’autoconsapevolezza, della coscienza di sé. Non si tratta di imprigionare tutto in un nome, magari nato due o tre secoli or sono. Si tratterebbe piuttosto di porsi lungo un solco e di continuare a tracciarlo in maniera adeguata ai nostri tempi, magari scavando ancor più in profondità.
Salvatore Veca, in riferimento agli studiosi e in particolare ai filosofi, parla di “coltivatori di memorie” e di “esploratori di connessioni”: è l’equilibrio fra i due momenti a essere particolarmente fecondo. Per certi versi ciò vale anche per i leader politici: non a caso il premier ha dichiarato che “la memoria non si rottama”.
Insomma, comprendo la considerazione di Mieli senza condividerla appieno.
La cultura politica del premier è “inquinata” da un’accezione plebiscitaria dell’investitura popolare, per la quale non la matematica ma la fettuccia dell’ippodromo decide chi governerà per i prossimi cinque anni. Ci ha detto domenica “meno male che in Italia c’è l’Italicum”, quando i risultati spagnoli hanno consegnato alla storia il bipolarismo trentennale della penisola iberica. Chissà che ci direbbe stasera, quando il Psoe ha annunciato che non agevolerà l’investitura di Rajoy premier perchè non considera dirimente il fatto che abbia segnato la prima posizione nelle urne con una (modesta) maggioranza relativa. Eppure basta ricordare (e chi ha cultura politica lo può fare agevolmente) che in Europa non conta la maggioranza relativa nel Paese ma quella assoluta in Parlamento. Il Portogallo non ha dato luogo ad una “maggioranza dei perdenti”, ma un consenso su un programma raggiunto dopo le elezioni su una piattaforma comune, più vasta di quella offerta dal metodo first-past-the-post. Se Madrid dovesse raggiungere lo stesso o analogo risultato, non ci sarebbe da scandalizzarsi o da stracciarsi le vesti: basterebbe leggere la Costituzione, che nessuna legge elettorale disrappresentativa può disattendere. Nessuna scorciatoia è possibile, quando la forza dei numeri non è sufficiente a garantire la maggioranza dell’assemblea deputata ad esprimere la fiducia al Governo. È lì che la politica riprende appieno tutte le sue ragioni e tutta la sua libertà di manovra.