Leggo l’ampio necrologio su Repubblica che riguarda la scomparsa, a 81 anni, di Paolo Leon, nato a Venezia, ma economista formatosi a Roma alla scuola di Federico Caffè, considerato di tradizione keynesiana e politicamente membro di quella ampia famiglia intellettuale socialista che negli anni ’70 militava con passione nella corrente di sinistra del Psi.
Proprio in quegli anni abbiamo fatto conoscenza nella stessa sezione socialista dei Parioli, con la mia preferenza (da milanese) per le posizioni dell’autonomismo. in un rapporto in cui non solo faticavano a rivaleggiare, ma dovevano alla fine sempre riconoscere tali qualità umane e intellettuali da trovare sempre sintesi ragionevoli.
Da qui una lunga stima e amicizia, passata attraverso l’esperienza della Associazione per l’economia della cultura, e qualche anno fa nella bellissima esperienza, sotto la guida di Walter Santagata, per la redazione del rapporto sull’economia della creatività in Italia. Tante volte la sua inconfondibile voce, che improvvisamente sbucava da qualche giornale radio a commentare fatti economici rilevanti, mi riportava alle ore, anche piccole, di discussioni e dibattiti, occasione di una vita fervida, tra vicende civili e avventure della conoscenza, per le quali Roma e’ stata città, per tanti di noi, ben diversa dalla sua caricatura: città vitale, città materna, città integrativa.
Con dolore apprendo della sua scomparsa – dopo una malattia che fronteggiava con spirito e con coraggio: e penso che mancherà a tanti, a memoria della grande qualità che la “sinistra della ragione” ha rappresentato in anni tutti da riscrivere.
Negli anni ’70 Leon contribuì a svecchiare la cultura economica del Psi, ancora divisa fra orfani della programmazione e neofiti del pansindacalismo. Ebbe il coraggio, ai tempi della crisi petrolifera, di proporre la piena utilizzazione degli impianti industriali (e quindi la radicale modifica dei turni di lavoro), e di contestare, insieme con Franco Momigliano, le magnifiche sorti e progressive della riconversione industriale concertata fra il ministro Prodi e le parti sociali.
Nel 1975, con Rino Formica e Gennaro Acquaviva, preparò la conferenza d’organizzazione del Psi che fu una delle premesse del “nuovo corso socialista”. E dopo le elezioni del 1976 fu tra i promotori, in seno alla corrente lombardiana, dell’iniziativa di radicale contestazione della segreteria De Martino che poi trovò conclusione al Midas.
Con Craxi poi i rapporti non furono idilliaci, tanto che nel 1981 uscì dal partito: ma non ricordo strascichi rancorosi. Ricordo invece che – convinto com’era che “con la cultura si mangia” – fu prezioso il suo contributo alla ricerca sull’economia della cultura.
ho conosciuto anch’io Paolo e – ne sono stato ovviamente grande amico – sin dalla nostra prima giovinezza. Coetanei, ci trovammo insieme nelle associazioni cattoliche, dove condividemmo valori ma in cui assumemmo sempre posizioni comuni, quanto all’impegno nella società e nella politica che ci portarono ben presto a militare, prima in Unità popolare e poi nel PSI. Ricordo questo lontanissimo passato perché sin da allora fui testimonio del fascino che emanava dalla sua personalità, così gioiosa e pensosa insieme, con le sue intime ferite, orfano di entrambi i genitori – il padre ebreo, ucciso nell’Olocausto – ma con un’innata gentilezza non scevra di quella severità che un’intelligenza così vivace non poteva non avere per uomini e per idee. E di quest’intelligenza io vorrei soprattutto da testimonianza, giacché m’ha sempre colpito di Paolo la capacità di essere originale e di cercare nuovi punti di vista (Dio solo sa se la cultura ‘di sinistra’, sin dagli anni ’70 del secolo scorso non aveva bisogno di essi!) anche in modo molto avventuroso, ma mai senza metodo e senza logica. Paolo ha contribuito a introdurre punti di vista nuovi e nuovi approcci in campi scientifici, anzitutto nella sua disciplina, ma non solo, con una semplicità° ed una generosità intellettuale abbastanza eccezionale. Le nostre strade politiche si sono poi allonanate, ma non la nostra amicizia: per poi renderci conto, con la pietas dovuta ad ogni storia, anche alla nostra personale, di quanto le apparenti distanze fossero insignificanti di fronte alla comune coscienza della tragicità del presente e del vuoto morale e politico ingenerato dalla crisi dei valori cui la nostra generazione è restata fedele sino all’ultimo.