Vorrei contribuire a cogliere alcuni dei motivi profondi della crisi del movimento per la pace. Potrebbe trattarsi, infatti, di una crisi di crescita.
Polemos è padre di tutte le cose, sosteneva Eraclito: la dimensione conflittuale è parte integrante dell’esistenza dei singoli e dei gruppi, e anzi la vivifica. Pretendere di estirparla sarebbe irragionevole. Potrebbe trattarsi di uno degli errori di un pacifismo ingenuo: che inoltre è forse attraversato da alcuni retropensieri che lo condizionano assai, riguardo in particolare al rapporto fra Nord e Sud del pianeta, il primo visto quasi sempre come “oppressore” e “sfruttatore”, con la complicità delle classi dirigenti del secondo.
La ricerca della pace, dunque, concepita per lo più come una forma di tutela dei “poveri” e degli “emarginati” del mondo (si scorge insomma l’eco di una visione “di classe” delle relazioni internazionali).
L’esperienza della nonviolenza, invece, si inserisce proprio nel quadro dei conflitti, divenendo una forma formidabile di conquista della libertà. Affermava il Mahatma Gandhi: “La mia resistenza alla guerra non mi porta al punto di ostacolare coloro che desiderano parteciparvi. Ragiono con loro. Presento loro la via migliore e li lascio fare la loro scelta”. La scelta come dimensione umana fondamentale: decisione e responsabilità. E che dire del pastore battista nero Martin Luther King e della sua “guerra alla povertà”? Il gesto di Rosa Parks, che il 1 dicembre 1955 viene arrestata per il suo rifiuto di sedere nella sezione posteriore dell’autobus, riservata ai neri, non è a suo modo conflittuale?
L’ignavia, accanto all’indifferenza, è il peso morto della storia; il rifiuto di prendere posizione. Per pigrizia o per averne assunta una fin dall’inizio, magari in maniera implicita: quella antioccidentale. Ma noi perseguiamo pace e giustizia anche perchè figli dell’Occidente.