Letta ha presentato il suo impegno verso gli italiani; lo ha fatto pubblicando un lungo articolo apparso sul supplemento del “Corriere”, “La Lettura, di domenica 27 ottobre. Dopo aver sottolineato che le diseguaglianze distributive, originate dalla crisi che ancora grava sul Paese, sgretolano la società facendola marcire al proprio interno, ha affermato che, per uscire dal tunnel della crisi l’ultima cosa che la politica dovrebbe fare “è rimuovere la realtà e rifugiarsi nelle scorciatoie”, ignorando antinomie come quella tra Stato e mercato. Evocando i termini di un dibattito in corso sull’altra sponda dell’Atlantico, Letta è del parere che non sia più in “discussione la preminenza dell’uno sull’altro”; in discussione vi è ora la necessità di un nuovo approccio al problema della crisi, che consenta di ricuperare il senso e l’indispensabilità della relazione stretta che dovrebbe esistere tra democrazia rappresentativa, economia di mercato e welfare, resa però compatibile con le trasformazioni del mondo contemporaneo e, in particolare, con le conseguenze delle rivoluzione tecnologica.
Ciò di cui il Paese ha bisogno, per Letta, è la costruzione di un ponte tra l’Italia delle crisi e quella del dopo-crisi e, a tal fine, il ricupero responsabile della relazione deve consentire al Paese di liberarsi “dall’ossessione del consenso immediato”, per realizzare le riforme strutturali necessarie, “facili da declamare a parole e faticose da attuare nei fatti”. Riforme che devono consentire di rimuovere le disuguaglianze distributive che rischiano di sgretolare la comunità nazionale, distruggendo quel “ceto medio” che, protagonista negli anni passati, è oggi esposto al rischio di scomparire, a causa del progresso tecnico. Perché il progresso tecnologico riveste tanta importanza nel discorso di Letta?. Per rispondere occorre tener conto dei termini del dibattito ancora in corso negli USA.
Erik Brynjolfsson e Andrei MacAfee, autori recentemente di “Race Against the Machine” hanno argomentato che la disoccupazione, una delle cause principali delle disuguaglianze distributive, non è un evento ciclico temporaneo destinato ad auto-estinguersi per effetto degli automatismi di mercato; esso è invece un problema strutturale di difficile soluzione. La loro tesi ha incrinato il “pensiero unico” che da sempre ha oscurato la previsione degli esiti negativi che, a lungo andare, un sostenuto progresso tecnico può procurare, non solo in termini di scomparsa del “ceto medio”, ma anche in termini di sperequazione distributiva, come conseguenza della distruzione di posti di lavoro che esso causa. Il pensiero tradizionale sul ruolo e la funzione del progresso tecnico è ritenuto il principale responsabile della crisi “dura a morire” dei paesi industrializzati.
Sino a poco tempo fa, l’idea prevalente riguardo al progresso tecnico era che esso non avesse alcuna connessione con le crisi. Anzi veniva considerato la leva per il superamento di eventuali fasi recessive delle economie; lo dimostra il fatto che per molto tempo, dopo l’inizio del processo di globalizzazione delle economie nazionali, l’origine delle crisi interne dei paesi industrializzati, veniva ricondotta all’instabilità dei mercati finanziari e, dopo il 2008, allo stesso processo di globalizzazione; questo, oltre ad essere considerato come fonte di nuove opportunità, era anche considerato come causa dei consistenti trasferimenti di ricchezza dai paesi industrializzati a favore dei paesi emergenti in Asia e nell’America latina. La tecnologia si riteneva non avesse un ruolo centrale nel manifestarsi di queste tendenze; il progresso tecnico si continuava a considerarlo, da un lato, come fattore di instabilità sociale; dall’altro, come fattore dell’aumento dell’efficienza del sistema produttivo, destinato a produrre nuova ricchezza e con essa maggiori livelli occupazionali: era questa l’idea della “distruzione creativa” di schunpeteriana memoria. Finalmente ci si è resi conto che, nell’epoca della sostenuta crescita globalizzata dell’economia mondiale, l’idea surreale che il progresso tecnico possa essere sempre connotato in termini di distruzione creativa è stata sostituita, nell’immaginario economico, politico e sociale da quella più realistica di distruzione negativa.
Ma non è tutto; il dibattito in corso negli “States” ha anche messo in evidenza come il progresso tecnologico nella fase attuale dei paesi industrializzati abbia alterato la tradizionale distribuzione del prodotto sociale tra capitale e forza lavoro; in passato, il progresso tecnico ha sempre contribuito a migliorare le capacità di reddito della forza lavoro; ma, dal 2000, le cose sono cambiate, nel senso che la quota del prodotto sociale attribuita alla forza lavoro ha incominciato a diminuire, mentre quella attribuita al capitale è cresciuta. Tutto ciò perché il progresso tecnico ha consentito che nell’organizzazione produttiva l’uomo fosse sostituito dal capitale, cioè dalle macchine ; in conseguenza di ciò, la forza lavoro è diventata progressivamente obsoleta, così come sono divenuti obsoleti i “cavalli man mano che sono stati sostituiti dalla forza motrice meccanica”.
Ci si sta rendendo conto, finalmente, che il rapido sviluppo del progresso tecnico e delle tecnologie imposti dalla crescente competitività internazionale, il motore delle creazione di nuove opportunità lavorative si è inceppato. E allora che fare? Letta nell’articolo ha affermato che per rimuovere l’inceppamento occorrono riforme strutturali; ma quali? Il nuovo capo del governo, espresso dalle larghe intese, non lo ha detto; si è limitato a formulare proposizioni assertive, che sono valse a dichiarare la sua disponibilità a voler fare qualcosa, senza dire che cosa.
Egli, infatti, si è limitato solo ad affermare che la costruzione del ponte tra l’Italia di oggi e quella di domani deve essere costruito assieme agli altri paesi europei; d’accordo, ma l’auspicata futura unità politica dell’Europa deve essere finalizzata a realizzare specifiche riforme strutturali che non possono essere derivate dal solo ricupero di una più stretta relazione tra democrazia, economia di mercato e welfare; occorre partecipare al processo di integrazione politica dell’Europa con specifiche idee e concrete proposte cha valgano a prefigurare le riforme strutturali che dovranno essere adottate. Al riguardo, se come sta emergendo dal dibattito sul progresso tecnico, il motore delle creazione di nuova occupazione si è inceppato irreversibilmente, il nuovo welfare a livello europeo quali riforme dovrà subire? Letta non lo ha detto; visto che il suo governo delle larghe intese non è ossessionato dal problema della necessità di disporre di un largo consenso, sarebbe stato opportuno che le sue esternazioni nei confronti degli italiani non avessero avuto la natura di sermoni consolatori e fossero state indirizzate verso le parti sociali per chiamarle alla responsabilità di abituarsi a confrontarsi sulle procedure con cui può diventare possibile risolvere il problema di una disoccupazione che ha assunto il carattere dell’irreversibilità.