Il tema del nostos, del ritorno, è un classico non solo nelle letterature antiche ma anche nella modernità. Quante volte l’emigrato desidera ritornare, sente il dolore (algos) per la lontananza dai luoghi e dalle persone abbandonate? Ma sempre, e soprattutto in un’epoca di veloci trasformazioni come la nostra, ogni ritorno diviene un ritorno nel vuoto. Vorrebbe essere un ritorno in un altro luogo, in un antico spazio che delimitava la vita prima della partenza, con le persone con le quali si viveva allora: ma appare chiaro che si dovrebbe sperimentare il ritorno a un altro tempo, a situazioni di un’altra epoca, a rapporti con persone che non esistono più o sono profondamente cambiate. Da qui la particolare sensazione di vertigine e di dolore che coglie l’emigrato: vive male, mai del tutto inserito nel nuovo contesto, ma non può più tornare indietro in un’altra epoca, che è una dimensione inattingibile.

Siamo tutti «emigrati» dal passato, orfani di esso. Forse una sensazione analoga colpisce chi ha vissuto esperienze importanti, o almeno significative, in un passato che sembra vicino ma è ormai lontano decenni. Ci si trova ad affrontare una strana realtà nel presente: sono cambiati il vocabolario, le strutture mentali, le esigenze di vita, le stesse modalità nell’affrontare situazioni ritenute un tempo ovvie e oggi non più.

È possibile che questa nostalgia colpisca anche quanti ricordano una realtà tutto sommato ordinata, incardinata in istituzioni che sembravano solidissime: una vita che si svolgeva secondo regole sufficientemente diffuse, e quindi magari da contestare, ma stranamente sempre vive ogni mattina.

«È di destra – si chiedeva Ernesto Galli della Loggia il 6 maggio sul Corriere della sera – volere norme non cervellotiche, interessi collettivi tutelati, chiedere attenzione per quanto rappresenta la nostra identità umana e storica, volere un’atmosfera culturale meno succube alle mode dei tempi?». Ha naturalmente ragione, e potrebbe aggiungere – come ha fatto il 2 giugno, sempre sul Corriere della sera – che ciò che unisce gli italiani non è certo il patriottismo costituzionale, e in fondo neppure la Repubblica: si tratta, se lo sentiamo,  di «un sentimento di obbligazione verso la collettività di cui facciamo parte, in forza dei legami molteplici che abbiamo con essa e che in un modo o nell’altro si ricollegano tutti alla sua lunga storia. Anche il valore della libertà (che è innanzitutto la libertà che siamo disposti a riconoscere agli altri) così come quello della solidarietà traggono alimento vitale da quei legami».

Qui si aprono problemi, su cui si sorvola continuamente, che meriterebbero un approfondimento molto serio. Innanzitutto: è possibile che per la maggioranza degli italiani quasi non esista la storia degli Stati in  cui per secoli si è svolta la vita dei nostri progenitori?  Non è facile dimenticare la storia di Venezia, grande potenza marinara per secoli e centro di vita culturale di altissimo livello; né si può dimenticare che le banche nazionali, innanzitutto quella inglese e poi quella americana, nascono sulla falsariga del genovese Banco di San Giorgio, in un certo senso prima banca centrale al mondo, a sua volta nata nel XV secolo sull’esempio degli istituti bancari fiorentini. Per non parlare di Napoli, nel cui decumano hanno vissuto e operato Boccaccio e Petrarca, e un po’ prima, quasi negli stessi luoghi (che peraltro costituiscono il punto dell’antica agorà greca e poi del foro romano), Tommaso d’Aquino. A distanza di poche decine di metri si trova il Conservatorio di S. Pietro a Majella, uno dei centri musicali più importanti d’Europa, nel quale hanno studiato un’infinità di musicisti italiani.

Quei grandi Stati (anche se piccoli per estensione) sono poi precipitati in  una progressiva decadenza per l’incapacità che ebbero di unificarsi e di costituire un grande Stato italiano, come è avvenuto negli altri paesi europei. Ma, anche se poco conosciuta in Italia, la cultura, la lingua e la sensibilità di quegli italiani in qualche modo sono giunte fino a noi. Da quella cultura deriva, innanzitutto, l’essere italiani, l’avere il senso di una storia lunga che si muove lentamente nel corso dei secoli. È stato ricordato che la Casa Bianca non è un grattacielo, ma una villa costruita sul modello delle ville palladiane importato in America dall’Inghilterra, che a sua volta l’ha desunto da Palladio. E siamo di nuovo in Italia.

Tutto ciò andrebbe sempre ricordato, e tuttavia viviamo in altri tempi, né si può vivere di nostalgia, se non per trarre ispirazione per il presente. Veniamo quindi all’oggi. Che dire della nostra lodatissima Costituzione? Avrebbe dovuto essere evidente a tutti, nel 1947, che il motivo primo per cui la dittatura fascista prese il potere, all’inizio degli anni Venti, risiedeva nella debolezza estrema della democrazia dell’epoca, uscita fragilissima dalla prima guerra mondiale. Dunque, caduto il fascismo, sarebbe stato necessario organizzare una nuova democrazia dalle fondamenta salde, dai governi forti e autorevoli, estremo baluardo contro una possibile catastrofe politica. Invece si preferì costruire una democrazia debole, dimostratasi inefficiente, dominata da un bicameralismo perfetto, centrata sulla gestione il più possibile assembleare della vita politica e su una imprecisa divisione di compiti fra maggioranza e opposizione che ne era una conseguenza: alla Dc e ai suoi alleati il governo, al Pci e ai suoi alleati la gestione dell’opposizione. Così abbiamo avuto, da allora, quasi un governo all’anno: dunque poca capacità di organizzare e dirigere le attività pubbliche, mancanza di responsabilità da parte dei governi, gestione indistinta di molte scelte, uso facile del denaro pubblico senza tenere conto delle compatibilità presenti e future.

Una Costituzione di tale natura nasce di sicuro per tempi brevi, non per un tempo di secoli. Non appena il trattato di Yalta (1945), alla cui ombra si svolgeva tutta la vita pubblica italiana, è saltato, ecco che è crollato l’architrave della politica italiana. Ma non si è provveduto per tempo a modificare l’assetto costituzionale. Intanto nuove esigenze sono sorte, una domanda molto più sofisticata emergeva da parte di cittadini certamente più maturi, non più analfabeti come negli anni Quaranta del Novecento. La politica però era ancora quella organizzata allora fra il Pci e la Dc, oggi svaniti nel nulla: e il lascito perverso di quei due partiti condiziona ancora duramente la vita pubblica italiana.

Intanto il mondo va avanti: nuovi soggetti politici e nuovi o rinnovati Stati sono sorti, e gestiscono in misura crescente la vita culturale, politica, economica della Terra, lasciandoci sempre più indietro. Noi non siamo ancora in grado di avere un governo che semplicemente governi per i cinque anni della legislatura. Non riusciamo ad avere un governo che vincendo le elezioni si metta a lavorare per realizzare il progetto per cui è stato eletto e su cui poi verrà chiamato a rispondere ai cittadini. Stiamo a discettare apparentemente di autoritarismo e democrazia per meglio insultarci reciprocamente, e ad usare strumenti pubblici per beghe private: e ci chiediamo poi perché quasi tutto provenga dall’Asia. Siamo stupiti dell’efficienza di Londra, della bellezza di Parigi: ma non ci chiediamo mai perché in Italia ci siano un’infinità di inutili sindacatini e sindacatoni che bloccano sistematicamente quasi tutto, e una classe dirigente pronta d’altra parte a bloccare il resto tramite una sterminata serie di decreti, ordinanze, circolari che sterilizzano a loro volta gran parte dell’immensa produzione normativa. Per non dire che molti provvedimenti legislativi sono presi sulla spinta dell’emergenza, senza nessun tentativo di programmazione; e che parecchi di essi risultano inapplicati (o applicati secondo il caso o secondo gli interessi di chi momentaneamente li utilizza). Chi in Italia è responsabile di che? Non mi pare che questo sia un ottimo Stato, ma un guazzabuglio utile a chi sa come servirsene e ai tanti populismi che zampillano di continuo nella nostra vita pubblica.

Ci gloriamo dell’antica cultura: ma la musica e la storia dell’arte non sono quasi studiate  nelle scuole. Abbiamo una scuola che da più di quarant’anni non funziona, ma chiunque osi mettere un dito sui problemi scolastici viene subito considerato fascista, nazista, o peggio. I docenti non sono formati, selezionati (e dunque convenientemente pagati) attraverso corsi di specializzazione di livello post-universitario, ma periodicamente vengono immessi in ruolo con discutibili ope legis. Si potrebbe ovviamente continuare, ma rimane un problema: non possiamo tornare indietro agli anni Sessanta (quando ancora tanto sarebbe stato possibile), e meno che mai all’epoca del Rinascimento. Che fare?