Per come l’ho concepito io, insieme ad altri, dall’Ulivo è nato il Pd. L’intento era quello di superare la divisione del lavoro, con la gamba di centro che intercetta il voto moderato e quella di sinistra che “pesca” nell’elettorato dell’ex Pci. Non a caso la Fed (Federazione dell’Ulivo) rappresentava un tentativo di passare dall’Ulivo inteso come coalizione a quello concepito come soggetto politico (cedendo “quote di sovranità”) e in prospettiva come partito.
Non sono certo mancati tentennamenti e ambiguità: si pensi alla formula, adottata in un congresso dei Ds, “Una grande sinistra in un grande Ulivo”: una sorta di scatole cinesi.
Chi fa appello oggi alla rinascita dell’Ulivo scorge nel Pd una formazione prevalentemente “di centro” (come se la politica si riducesse a un dato geometrico), con la quale poter costruire alleanze da sinistra. In fondo è la riproposizione dello schema  del “compromesso storico”. Il Pd, novella Dc, come forza democratica con la quale coalizzarsi per battere le destre ed evitare derive demagogiche.
In realtà, specie a livello locale, ad essere deficitaria nel Pd non è “la sinistra”, bensì la cultura laica, liberale, libertaria, liberalsocialista. Non propongo di dar vita a un partito radicale di massa: ma senza il sale e il lievito di quella sensibilità e di quell’approccio forse non andremo lontano.
Non è un problema di “pantheon” o di icone, quanto di mentalità. Culturalmente la gran parte del Pci e della Dc ha già dato al paese tutto ciò che poteva. Ѐ la mentalità liberale che fa fatica a esprimersi compiutamente nelle pieghe di un’Italia ancora corporativa e a tratti ripiegata su se stessa. Sono le aspettative, andate deluse, che il ceto medio riponeva nel Psi di Bettino Craxi (coniugare i bisogni con il merito) a non riuscire a riemergere appieno. Su quel versante c’è molto da lavorare.