Nella notte del 26 maggio 2014 la professione e l’industria giornalistica italiana hanno conosciuto di nuovo il sapore della disfatta, dopo quella del 26 febbraio 2013, a risultati delle elezioni politiche acquisiti. Questa volta la voragine si è aperta sotto i loro piedi, fondati da venti anni sui sondaggi e le ricerche di mercato, proprio mentre andava in scena l’ultimo atto dell’ordalia fra Matteo Renzi e Beppe Grillo, così efficacemente allestita e rappresentata nelle ore e nei giorni delle ultime settimane. Quello che si annunciava come lo scioglimento del dramma fra i nuovi protagonisti della scena politica italiana è stata la frana in diretta e la liquefazione di quanto restava nel nostro paese della credibilità dell’offerta televisiva e stampata di informazione: il mondo era andato da un’altra parte, le cose erano andate e stavano proprio in un altro modo, e impresari e attori dovevano cambiare subito, davanti agli spettatori frastornati, locandine e copioni. Era come se il pubblico, chiamato a gran voce ad assistere al dramma epocale della “storia che si fa sotto i vostri occhi”, si sia trovato di fronte allo scasso del copione e al crollo delle scene sulla compagnia che lo stava rappresentando: una compagnia inadeguata, chiaramente “sovrastata dagli eventi”, appunto.
Bisogna dire che questa volta si è avuta subito una qualche reazione pubblica, se non altro perché uno spettacolo d’informazione così sconquassato da eventi esterni alla sceneggiatura non si era ancora visto. Neppure in Italia. In alcuni programmi televisivi sono finiti, naturalmente, sotto accusa i sondaggisti, chiamati a render conto dei prodotti farlocchi spacciati fino alla mezzanotte del 25. Sono stati evocati, naturalmente, gli aruspici, la lettura delle viscere, il volo degli uccelli; gli addetti ai numeri sono stati accusati non solo di cacciar balle, ma di raccontare favole, fantasie “aggiustate” fra loro, per non contraddirsi con i media, committenti creduloni. Anche industriali e giornalisti (anzi soprattutto loro, e prim’ancora del pubblico) erano la parte lesa vociferante di un cotale crollo, finché un’accusata non contumace, la signora Elisabetta Ghisleri, ha fatto presente, dopo vari abracadabra con i dati delle liste minori, che c’erano tre milioni e mezzo di incerti nei dati forniti da lei e dai suoi pari ai giornalisti.
Qualcuno aveva mai parlato di “incerti”? Era mai stata gridata con la dovuta evidenza questa parola, nel precipitare angoscioso del nodo stretto alla gola dell’opinione pubblica nazionale, nelle settimane giorni ore e minuti del conto alla rovescia mediatico verso le elezioni europee? Con la stessa evidenza data ai punti della distanza, ai decimali dei recuperi, all’affanno della tenuta, all’empito della rincorsa fra la coppia di testa di questo racing nostrano, messo in scena dai media per il proprio declinante pubblico di lettori e spettatori? Che ne sarebbe stato delle copie vendute e, soprattutto, degli share dei tg e degli spettacolini della politica proliferati negli ultimi mesi su tutte le reti generaliste italiane, senza tutta questa concitazione, senza un tale forsennato imbonimento? Che vita avrebbero fatto i giornalisti in queste settimane, senza tutta questa adrenalina (così sprecata, si è visto) ai fini di una buona e corretta informazione, e così utile ad altri fini, tutti interni alla professione, evidentemente, e alla permanenza del primato, nell’agenda dei media e nell’attenzione del pubblico, di una politica ridotta a corse di cani e del loro ruolo in essa?
Speriamo che quanto abbiamo potuto vedere sceneggiato nell’offerta mediale, in questa occasione, sia stata l’ultima epifania del sistema maggioritario come ci è stato scodellato in casa durante la seconda Repubblica – con il suo orizzonte mentale e istituzionale duale, primitivo, regressivo – messa in scena dopo quasi il tramonto (fino alle corse clandestine dell’ippodromo www.notapolitica.it) da un sistema ormai sclerotizzato nei linguaggi, nei ritmi, nei toni, nei formati; e ripetitivo, modesto nelle ambizioni e nelle logiche competitive dei ruoli professionali e dei mezzi, nella televisione generalista declinante come nella carta stampata agonizzante. Senza farci nessuna illusione, naturalmente, su quanto ci annuncia la grande rete, dove la sindrome ossessivo-compulsiva di un’umanità che si cerca si somma e, in parte, sorregge l’economia e la sorte di questa industria obsoleta e screditata, nella proliferazione dei “contatti” e degli introiti.