I significati di “Repubblica” che si ricavano dalla nostra Costituzione sono almeno tre.
Il primo significato, minimo ma indiscusso, ha a che vedere con la procedura di designazione alla carica di Capo dello Stato, che non può essere ereditaria come in una monarchia, ma è elettiva (indipendentemente da se si tratti di elezione popolare diretta o parlamentare). L’esordio della Costituzione (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) si collega infatti all’ultimo articolo (“La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale” (art. 139), che a sua volta, come ebbe a dire Vittorio Emanuele Orlando, era il solo punto su cui i Costituenti non erano sovrani, ma vincolati al risultato del referendum del 2 giugno 1946, in cui il popolo italiano, chiamato a scegliere fra monarchia e repubblica, aveva optato per la seconda.
Un secondo più esigente significato riguarda le conseguenze sulla forma di governo, cioè sui rapporti fra istituzioni titolari dell’indirizzo politico e sulle procedure di elezione di un Presidente della Repubblica come Capo dello Stato. La definizione dell’Italia come Repubblica, da questo punto di vista, comporterebbe che nemmeno riformando la Costituzione secondo le procedure previste dall’art. 138 il Presidente possa essere eletto direttamente dal popolo e porsi eventualmente a capo di uno schieramento politico: comporta dunque, questo significato, una Repubblica parlamentare. La tesi, sostenuta da alcuni studiosi ma con scarso seguito scientifico, fu il presupposto del messaggio che il Presidente Francesco Cossiga inviò alle Camere nel 1991. Il suo invito a forzare le procedure di revisione costituzionale previste dall’art. 138 con ricorso a un referendum a valenza costituente, cioè a una “superiore volontà popolare”, implicava infatti che gli artt. 1 e 139 non soltanto avessero riconosciuto quanto il referendum del 1946 aveva già sancito, ma impedissero pure che si potesse istituire una forma di governo presidenziale (dal Presidente auspicata) ricorrendo all’art. 138.
Un terzo significato di Repubblica si colloca invece sul piano dei rapporti fra società e istituzioni, indipendentemente dalla forma di governo. E’ un assetto che organizza il pubblico potere partendo dall’antica visione della libertà come autonomia politica del singolo, ancora presente nei Discorsi di Machiavelli, piuttosto che da quella della libertà individuale dal potere, prevalsa nel costituzionalismo liberale ottocentesco. Il discorso è qui molto più complicato, perché tocca nel profondo l’organizzazione della convivenza. Ma non mi sentirei di escludere che la Costituzione rechi tracce della prima visione, specie se guardiamo al “fondata sul lavoro” dell’art. 1, e al correlato dovere di ogni cittadino “di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4, secondo comma).
Rifiutata la proposta della sinistra di fondare la Repubblica sui “lavoratori”, i Costituenti decisero di parlare di “lavoro” come attività connotativa del vivere insieme. E anche se il dovere di lavorare restò non sanzionato (dopo che la proposta Mortati di escludere dal diritto di voto gli oziosi e i parassiti fu respinta per la difficoltà di definire queste categorie), il carattere socialmente utile del lavoro, inteso nel senso più ampio, fu inscritto nei cromosomi della convivenza repubblicana.
Cose vecchie, parole vuote? La risposta è positiva se stiamo al dibattito fra quanti issano la bandiera della Costituzione sul presupposto che essa parli solo di lavoratori subordinati, e quanti proprio per questo la scherniscono. Se invece guardiamo alla realtà del nostro tempo, alla crescita esponenziale del peso di rendite e oligarchie finanziarie (che in Italia si sommano a una vocazione corporativa e particolaristica del tessuto sociale che viene anch’essa da lontano), il discorso è molto diverso.