Dopo l’inizio della crisi dell’economia mondiale (2007/2008) sono proliferate le analisi sulla tenuta del liberismo nella sua interpretazione moderna; un po’ controcorrente si colloca l’analisi che Pierre Dardot e Christian Laval, filosofo il primo e sociologo il secondo, compiono in “La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista”. Il volume, pubblicato originariamente in francese nel 2009, è stato tradotto in italiano nel corso del 2013.
Prima di esporre la tesi dei due autori e illustare l’obiettivo che essi si prefiggono occorre precisare che la lettura del volume è “disturbata” dalla confusione che viene fatta circa i concetti di liberalismo e liberismo: nel senso che i due termini sono frequentemente usati come sinonimi, per quanto emerga evidente che “sotto inchiesta” sia l’interpretazione moderna del secondo.
Qual’è la critica che gli autori rivolgono a tale interpretazione? Essi spiegano come le società occidentali abbiano subito un processo di deterioramento, per via della razionalità propria dell’interpretazione moderna del neoliberismo; nel senso che la razionalità che gli è sottostante, attraverso la rimozione di ogni forma di regolazione e di controllo del sistema economico, ha ridotto la società a un aggregato di processi che si sostanziano in comportamenti individuali aventi la stessa natura di quelli propri degli operatori economici, trasformando così ciascun soggetto in imprenditore di se stesso.
Da ciò sarebbe seguita una trasformazione antropologica dei componenti della società che è valsa a distruggere ogni senso di comunità e di solidarietà, a causa appunto della interiorizzazione, nei singoli e nelle istituzioni, della razionalità che sottende il neoliberismo interpretato dai suoi moderni sostenitori.
Sin qui, nulla di nuovo sotto il cielo delle critiche al funzionamento delle moderne società capitaliste: la critica di Dardot e Laval ripropone infatti quella da tempo formulata, ad esempio, da Christopher Lasch e da altri; ma a differenza di questi Dardot e Laval indicano una prospettiva di uscita dai limiti dei comportamenti plasmati dal neoliberismo moderno che risulta affetta da un eccesso di “wishful thinking”, in quanto escludente a priori ogni possibile ritorno, perché considerato illusorio, “al bel tempo antico” dello Stato regolatore.
La possibilità di un ritorno alla regolazione del sistema economico sarebbe un’illusione pericolosa perché potrebbe indurre a una “smobilitazione politica”: perciò il compito della sinistra non può essere desunto oggi dalla semplice constatazione degli aspetti negativi delle politiche neoliberiste, cioè dal fatto d’essere state realizzate a seguito della “distruzione programmata delle regolamentazioni e delle istituzioni”, perché il neoliberismo moderno “non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività”.
Con il neoliberismo moderno ciò che è stato “messo in gioco” è la “forma della nostra esistenza, cioè il modo in cui siamo portati a relazionarci agli altri e a noi stessi”. La sinistra deve dare risposte positive agli esiti di un neoliberismo assurto a ragione del capitalismo contemporaneo, cioè agli esiti di un capitalismo che, liberatosi da tutto ciò che ha considerato “arcaizzante”, si è autodefinito come “norma generale di vita”.
Inoltre la sinistra non può formulare una valida risposta alle sfide del moderno capitalismo conservandosi all’interno delle interpretazioni marxiste della storia: perché, se tali interpretazioni sono riuscite spesso a dare conto delle crisi economiche (inclusa quella che ha colpito le economie di mercato nel 2007/2008), non sono però in grado di cogliere le implicazioni del capitalimso neoliberista, in quanto rinchiuse in una prospettiva di analisi dell’evoluzione sociale che fa della “logica del capitale” il motore unico della storia. In realtà, il vero motore delle storia è oggi il “potere del capitale”, col quale l’interpretazione moderna del neoliberismo “subordina lo Stato e la società mettendoli al servizio della propria cieca accumulazione”.
Le interpretazioni marxiste tradizionali, oltre a ritenere l’economia come l’unica dimensione del neoliberismo, considerano la società come il riflesso della logica del capitale, che conforma a sé le forme organizzative, sociali, culturali e politiche necessarie per la sua ulteriore espansione: La società neoliberista attuale è piuttosto il risultato di un processo storico che non è stato programmato dai suoi protagonisti: nel senso che gli elementi diversi che la compongono si sono formati interagendo e rafforzandosi gli uni con gli altri.
Conseguentemente, nel peseguire il superamento dei limiti del capitalimso attuale, la sinistra non deve cadere nella “trappola” di pensare che il neoliberismo sia, come spesso viene detto, un ritorno al liberismo delle origini; e ritenere che qualsiasi tentativo di reintrodurre una qualche forma di regolamentazione e controllo della vita economica debba essere considerato, per definizione, anti-liberista. E’ vero, affermano Dardot e Laval, che nel primo liberismo, quello che prese corpo nel XVIII secolo, la questione della regolamentazione e del controllo delle istituzioni economiche e la difesa della libertà degli individui e della società occupavano una posizione centrale; tuttavia, “l’unità del liberismo ‘classico’ diventerà sempre più problematica, come dimostrano i cammini divergenti dei liberali del XIX secolo, tra il dogmatismo del laissez-faire e un certo riformismo sociale, divergenza che porterà a una crisi sempre più profonda delle vecchie certezze”.
Si ha ragione di ritenere che le cose non siano andate come affermano Dardot e Laval: se è vero che il liberalismo, dal quale ha tratto origine il primo liberismo nel corso del XIX secolo, è stato interpretato nel tempo in termini divergenti, è altrettanto vero che ad un’assunzione dogmatica del laissez-faire è stata contrapposta una sua interpretazione riformista propria del repubblicanesimo liberale. Quest’ultimo verrà evolvendosi sino a nostri giorni, con gli approfondimenti di autori quali Keynes, Rawls, Dworkin, Walzer e Habermas, i quali proporranno un neoliberismo cui non corrisponde affatto l’interpretazione moderna del neoliberismo criticato da Dardot e Laval: e se il neoliberismo del repubblicanesimo non si è materializzato in specifiche politiche pubbliche di controllo e riformiste, è perché la razionalità del capitalismso moderno ha impedito, con la forza del capitale, che ciò si verificasse.
E’ fuorviante perciò affermare che la nuova razionalità capitalista pone alla sinistra e alle forze autenticamente riformiste la necessità di evitare, come spesso è accaduto, di difendere la democrazia liberale, intesa come forma di regolazione e di controllo del sistema economico; non che esse debbano rinunciare a difendere le libertà pubbliche, ma devono “guardarsi bene dal farlo in mome di quella democrazia”. Se ciò avvenisse, per la sinistra e le forze riformiste significherebbe screditarsi ulteriormente, in quanto ridurrebbero la propria azione ad una continua lamentazione piuttosto che alla costituzione di un “partito dotato di una visione politica, sociale ed economica alternativa”; un partito, cioè, in grado di evitare il ritorno al compromesso socialdemocratico e keynesiano, dato che le forze in gioco non sono più quelle che lo hanno giustificato, in quanto la globalizzazione del capitale le ha totalmente spiazzate.
Se la sinistra e le forze riformiste non terranno conto di tutto ciò, trascureranno il fatto che la razionalità del capitalismo moderno, imperniata sul primato del mercato e della concorrenza, non è puramente economica, e mancheranno così di porsi correttamente il problema di come superarla con la promozione di una razionalità alternativa: una razionalità, cioè, che non miri più alla massimizzazione delle prestazioni e ad una produzione illimitata, ma a un governo degli uomini fondato sulla comunione del sapere, sulla mutua assistenza e sul lavoro cooperativo; pratiche, queste, che “possono disegnare le linee di un’altra ragione del mondo. Non la si potrebbe designare meglio: la ragione del comune”.
Questa fantasiosa prospettiva ripropone quella di Michael Hardt e Toni Negri, fondata sul ruolo di una non ben definita “moltitudine”: una prospettiva, cioè, implicante un salto nel buio per la realizzazione di un obiettivo che si colloca solo nel surreale. La nuova ragione può essere invece realisticamente acquisita come fondamento di una governance del mondo capitalistico attuale solo attraverso politiche pubbliche riformiste, ispirate al neoliberalismo repubblicano: in altri termini, attraverso politiche assunte ed attuate all’interno di strutture istituzionali idonee ad esprimere un governo della società che – oltre a garantire il rispetto della dignità dell’uomo e la possibilità che egli possa realizzare nella libertà il proprio progetto di vita – sia in grado di reintrodurre forme di regolazione e di controllo della vita economica in grado di assicurare una generalizzata e condivisa giustizia sociale, con l’istituzionalizzazione della solidarietà.