La politica internazionale è sempre stata politica di potenza e per quanto la storia recente abbia potuto produrre o promuovere nuovi registri, il revisionismo russo sui confini dell’Europa orientale testimonia nitidamente come la logica dei blocchi – lungi dall’essere stata scalfita – cristallizzi ancora oggi i rapporti di forza fra Stati Uniti e Russia. Washington e Mosca ingaggiano un autentico duello (una guerra di nervi, come ai tempi di George Kennan), rispolverando da un lato il contenimento, dall’altro una frustrata vocazione imperiale.
Il vecchio Continente torna così ad essere periferia dell’Occidente: teatro di uno scontro che subisce e non gestisce, nella generale impotenza delle istituzioni comunitarie. Di fronte alle grandi trasformazioni che hanno letteralmente sconquassato la stabilità ucraina, ogni cancelleria ha reagito in maniera diversa. Si è proceduto in ordine sparso, soppesando gli interessi strategici nazionali e manifestando una vocazione autonomista che lady Ashton non ha saputo circoscrivere. Il preludio è l’amor patrio, l’epilogo è il nazionalismo particolarista. Come ai tempi della guerra in Libia, come durante la guerra in Iraq, come agli albori della crisi nel Kosovo, le consultazioni lampo non hanno prodotto alcuna unità d’intenti: servono al più come testimonianza per le generazioni future, al fine di evitare un giudizio sommario che potrebbe essere emesso con cinica perfidia dal tribunale della storia. Non è questo che c’aspettiamo da una sana politica.
Federica Mogherini, la stessa che voleva un dicastero “meno tecnico e più politico” e che intende scongiurare il rischio di una grossa coalizione europea, ha spiegato che il compito della Farnesina è evitare una possibile spirale di violenza. Forse l’esponente del Pd intendeva dire che quello è il fine della diplomazia tout court, poiché da un governo forte e serio, da un gabinetto in salute, ci aspettiamo qualche dichiarazione di principio e la definizione di un approccio strategico su una questione di così centrale rilevanza. Vorremmo cioè capire se l’Italia sta dalla parte di Kiev o dalla parte del Cremlino, vorremmo comprendere cosa intende fare Palazzo Chigi per la difesa dei confini ucraini e per la sicurezza europea, vorremmo sapere se Roma riconosce o meno la legittimità del referendum in Crimea e se il futuro presidente di turno dell’Unione intende perorare la causa di una popolazione minacciata nella propria integrità territoriale. Ci serve una cartina di tornasole.
Non è la prima volta che Putin alza il tasso di conflittualità nella regione. L’ Abkhazia e l’Ossezia dovevano fungere da monito. Kissinger amava dire: “Una strategia politica deve basarsi come minimo su questi tre elementi: un’analisi rigorosa, che stabilisca l’ambito delle scelte possibili; una preparazione meticolosa; e infine la capacità di prendere subito l’iniziativa. Quando è in atto una crisi, la passività non fa che accrescere l’impotenza: alla fine ci si trova costretti ad agire proprio sui problemi e nelle condizioni di gran lunga meno favorevoli”. Ripartiamo da qui, ponendo innanzi alle potenze alleate le questioni concernenti il dossier Eurasia. La Nato serve a questo. Per un paese-cerniera qual è l’Italia, terra di confine fra Est ed Ovest come fra Nord e Sud del mondo, è una tematica prioritaria, nonché un buon terreno su cui misurare il tasso di affidabilità internazionale del nostro esecutivo.