Non è infrequente che certe frasi e certi concetti acquistino nel tempo, ai nostri occhi, significati nuovi e diversi. Un po’ come quando rileggiamo a distanza di anni “lo stesso” libro; che sovente ci appare tutt’altro che lo stesso (a me è accaduto ad esempio con Socialista di Dio, di Sergio Zavoli).
Così l’attività professionale di psichiatra mi pone non di rado in contatto più o meno diretto con gli adolescenti e i ventenni di oggi, consentendomi di rivisitare da un’altra prospettiva una delle celebri battute di Indro Montanelli: meglio avere un cattivo carattere, piuttosto che non averne alcuno.
Ecco: una parte importante del percorso formativo di psicologi e psichiatri è data dallo studio delle “nevrosi”, caratterizzate, secondo la classica lettura psicodinamica, soprattutto dal conflitto interiore (emblematico quello fra l’ “Es”, le pulsioni, e il “Super-io”, l’istanza normativa). Eppure ricorrono fra i colleghi esclamazioni scherzose del genere: “a trovarlo un bel nevrotico di una volta!”. Sì, perché, semplificando molto il discorso, “una volta” si era sovente al cospetto di un “di più”, di un eccesso, di “un troppo”: “troppa” autorità, madre possessiva, padre tirannico. Tanto che Freud indicò come obiettivo del trattamento psicoanalitico quello di togliere (un po’ come fa lo scultore), anziché quello di aggiungere.
Oggi, dinanzi alla crisi della famiglia tradizionale, in una società complessa e più che mai mutevole, abbiamo spesso, invece, l’impressione di un’assenza, di un aspetto per così dire deficitario, pur nel moltiplicarsi degli stimoli. E i genitori paiono poco presenti nel vissuto di molti ragazzi. Conseguenza, forse, anche della tanto dibattuta perdita di “autorevolezza”. Prevale piuttosto la sensazione del vuoto. E non a caso la parola alessitimia e il relativo concetto (la difficoltà, in definitiva, a riconoscere e vivere appieno le emozioni, intese non come esperienze estreme ed eccitanti, bensì come sale e lievito dell’attività mentale) hanno acquisito piena cittadinanza nella psico(pato)logia da non troppo tempo. Non solo: ma quello che sembrava un atteggiamento provvisorio, espressione per certi versi inevitabile del caos e del marasma dell’adolescenza, si propone sempre più come un assetto duraturo e ripetitivo. È il mare magnum della “personalità borderline”, in senso lato.
Da qui, anche, una sorta di barriera di incomunicabilità fra genitori e figli, e più in generale fra le generazioni. Se la contestazione giovanile degli anni ’60 e ’70, letta con gli strumenti della psicologia, era caratterizzata dal vissuto sociale e condiviso del “conflitto edipico”, ai giorni nostri parrebbe prevalere la debolezza o la mancanza di rapporti fra “vecchi” e “giovani”.
Come se il non-rapporto avesse preso il posto del rapporto conflittuale. E di ciò ancora non siamo in grado di cogliere appieno i risvolti e le conseguenze.