Passano gli anni e più mi convinco di essere stato preveggente nel ritenere che l’operazione realizzatasi nel 2007 con la costituzione del Pd fosse da considerare tutt’altro che una sorta di “fusione fredda” tra ex comunisti ed ex democristiani.
Con tale definizione alcuni commentatori – anche tra i più autorevoli – intendevano evidenziare il realizzarsi di un’anomala sommatoria di sensibilità politiche che in passato si erano (frequentemente) ritrovate a divergere su questioni di rilevante spessore. Un’alleanza “stonata” quindi, inevitabilmente destinata a non sopravvivere alla forza degli eventi. O anche un cartello elettorale che – stante le profonde e (talvolta) inconciliabili posizioni di provenienza – avrebbe prodotto ulteriori lacerazioni tra gli eredi dei maggiori partiti espressi dalla prima Repubblica.
Si trattava, invece dell’ennesima dimostrazione dell’ineguagliabile capacità del vecchio gruppo dirigente del Pci di sapersi “adeguare” ai tempi e alle esigenze del momento storico. In effetti, con sostanziale (consapevole) brutalità, ritengo di poter affermare che ai Democratici di sinistra (già Pds) – per i quali il “riformismo” era stato, in passato, addirittura, equiparabile al “socialfascismo” – cominciava ad apparire sin troppo chiara l’impossibilità di continuare a speculare a fini politici sullo status symbol della “diversità”.
In questo senso, erano (già) lontani i “bei tempi andati”, quando ancora sarebbe apparsa fantascientifica qualsiasi ipotesi di “caduta del muro” e – nella strumentale contrapposizione tra il Capitalismo dell’Ovest e la (falsa e opprimente) Dittatura del proletariato dell’Est – quello che era arrivato a essere il più grande partito comunista d’Europa aveva potuto contare su una grande rendita di posizione. L’essere riuscito, in sostanza, a convincere alcuni milioni di sostenitori e simpatizzanti della fatidica possibilità di una ”svolta a sinistra”. Tra questi, non pochi “duri e puri” che, rivelatisi poi più realisti del re, meriterebbero un capitolo a parte per glorificarne le camaleontiche doti.
Era quindi chiaro – ai “soliti” dirigenti – di essere ormai giunti al capolinea, dopo:
a. la mancata realizzazione del compromesso storico (che al Pci produsse quale massimo risultato, la breve parentesi di appoggio esterno al governo Andreotti del 1978);
b. la svolta della Bolognina – con la nascita del Pds – che, ad appena tre giorni dalla caduta del muro di Berlino, annunciava grandi cambiamenti e il superamento del Pci a favore di “una nuova formazione politica aperta alle componenti laiche e cattoliche”;
c. la creazione di un movimento unitario di sinistra (Ds), che, per la prima volta, aveva – addirittura – sancito l’eliminazione della dicitura “partito” dal nome della nuova formazione.
A quel punto era evidentemente necessario – e soprattutto politicamente opportuno – non avere più nulla a che fare, nemmeno nominalmente, con la “sinistra”. Tra l’altro, a ulteriore sostegno della tesi secondo la quale – per gli “storici” responsabili delle precedenti formazioni politiche, in particolare del Pci – si rendeva indispensabile un maquillage completo, la responsabilità politica del Pd fu affidata, attraverso il voto dei 2.858 componenti l’Assemblea Costituente, al “giovane” Veltroni (Walter l’amerikano).
Quello, per intenderci, che aveva già dichiarato urbi et orbi di non essere “mai stato ideologicamente comunista”, e successivamente avrebbe concorso a realizzare – attraverso lo scellerato appello al “voto utile” nelle politiche 2008 – la sostanziale espulsione della sinistra dal Parlamento italiano. Salvo ritrovarsi, quali sponsor della nuova formazione, gran parte di quegli stessi dirigenti ed “eminenze grigie” che – appena qualche anno prima (Napolitano docet) -ancora definivano (pudicamente) “Fatti d’Ungheria” la rivolta popolare che – a Budapest, nel 1956 – i paesi del Patto di Varsavia avevano stroncato nel sangue degli “insorti”.
Tornando ai “costituenti” del 2007, si trattava degli stessi ex che:
1) nell’agosto del 1968 – al pari di un semplice (ingenuo e inconsapevole) lettore dell’ Unità o di Rinascita – avevano avuto la spudoratezza di sostenere di avere appreso “con sgomento” dell’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Urss e dei suoi satelliti;
2) durante gli anni dei primi governi di centro-sinistra in Italia – pur di dissociarsi dal riformismo di matrice socialista – avevano mancato alcune incredibili occasioni per partecipare (concretamente) all’affermazione dei diritti civili nel nostro paese (in particolare con le astensioni sulla riforma delle pensioni e sulla nascita della Previdenza sociale – legge 153/69 – e sullo Statuto dei lavoratori – legge 300/70 – nonché col voto contrario – insieme al Msi – alla riforma della scuola media – legge 1073/63);
3) nel marzo del 1976 – con una comunità internazionale che fremeva di sdegno per il “golpe” – fedeli alle indicazioni del Pcus, che premeva affinché i “partiti fratelli” lasciassero cadere ogni critica ai rispettivi governi per la politica seguita nei confronti del regime argentino, preferivano non inasprire il rapporto con l’Urss e si “adeguavano” a un imbarazzante silenzio.
D’altronde c’è poco da meravigliarsi; come già anticipavo, sembra far parte del Dna della stragrande maggioranza dei sostenitori “storici” dell’ex Pci – ex Pds, ex Ds, attuali Pd – la (non invidiabile) capacità di assorbire con estrema disinvoltura “svolte” e “abiure” di quelli che, in altra epoca, gli erano stati indicati come veri e propri dogmi.
Al riguardo, chi, come me, ha trascorso tanti anni della propria vita da dirigente (regionale) della Cgil, (iscritto dal 1976) sarebbe in grado di indicare, con prove circostanziali e senza tema di smentite, innumerevoli casi di compagni del Pci (tantissimi, tra i più “duri e puri”) che, se ancora negli anni settanta/ottanta amavano esercitarsi nella denigrazione del “socialdemocratico” di turno, si sarebbero poi convertiti alle esigenze del “mercato” e (improvvisamente) arruolati tra i più solerti sostenitori del “riformismo”. Quasi che esso avesse sempre fatto parte del proprio bagaglio culturale e rappresentato un’opzione politica cui, in passato, avessero dedicato quegli sforzi e quelle energie che, invece – nello scontro Est/Ovest – avevano esclusivamente votato, con ineguagliabile determinazione, all’affermazione del “Socialismo reale”.
A questo aggiungo che – a mio parere – una delle ragioni che avevano spinto il Pci, già nella seconda metà degli anni settanta, a tentare la strada dell’alleanza organica con l’allora Dc, era rappresentata dal (profondo) convincimento dei suoi dirigenti che, per avere la garanzia di un governo tanto solido da poter operare con autorevolezza nel nostro paese, non sarebbe mai stata sufficiente – per la sinistra dell’epoca – neanche la maggioranza dal 50 per cento più uno dei voti. Per la storia, i costumi, le tradizioni e le condizioni socio/culturali dell’Itala – non ininfluente, in questo senso, l’ingombrante presenza del Vaticano – la condizione sine qua non era rappresentata dalla necessità di raccogliere consensi “al centro”.
Ne è ben consapevole il “giovin signore fiorentino”, quando si dichiara fermo sostenitore del “bipartitismo”. Ed è proprio questo il punto. L’esperienza degli ultimi anni è, al riguardo, molto significativa. L’operato e i risultati – politici e sociali – del Pd, quale espressione del fantomatico centrosinistra (senza più neanche la non insignificante presenza del “trattino”) sono noti a tutti. Nei fatti, quel minimo di politica “di sinistra” che sarebbe stato lecito aspettarsi da quegli stessi dirigenti di un partito che, solo fino a pochi anni prima, si definiva – ancora e addirittura – “rivoluzionario” e misticamente votato alla realizzazione del “Sol dell’avvenire”, si è (miseramente) infranta di fronte all’esigenza di un inafferrabile “senso di responsabilità”. Lo stesso che, da alcuni mesi a questa parte, funge – secondo alcuni – da vero e proprio alibi a un’anomala alleanza di governo.
Personalmente sono invece convinto che oggi assistiamo alla fase successiva di un’azione in progress: l’ulteriore passo in avanti di una strategia sostanzialmente (già) delineata. Il naturale approdo di una “politica delle alleanze” rispetto alla quale – per gli ex Pci – la costituzione del Partito democratico ha (evidentemente) rappresentato un’efficace “sperimentazione”. Verrebbe da dire: “Niente di nuovo sotto il cielo”. Cosicché, come nel 2007 fu indispensabile “puntare” su Veltroni, oggi si ripresenta la necessità di ricorrere al “nuovo”.
Lo pseudo “Rottamatore” (di chi, visto che Veltroni, Bassolino, De Luca sono tutti con lui?) – da perfetto “comunicatore senza contenuti”, in particolare “di sinistra”, rappresenta il massimo possibile. Non a caso il Matteo nazionale – come egregiamente rilevato da Carlo Freccero – “attua una comunicazione semplice e accessibile a tutti e un programma ‘di consenso’ che non hanno bisogno di indicare soluzioni (e prospettare obiettivi), ma piuttosto di allargare il potenziale elettorato, coagulare maggioranze di destra e di sinistra, vincere le elezioni”.
In definitiva Renzi – che resta un finto innovatore – è stato scelto perché dovrebbe riuscire in quello che il Pd ha fallito. Mettere insieme “centro” e destra “moderna” – sperando, ma non necessariamente, di “assorbire” una parte del M5S – con ai margini la Lega e quella destra non presentabile in Europa. Senza tralasciare (ovviamente) di lasciare fuori dal Parlamento quel po’ di sinistra, senza più l’esigenza dell’aggettivazione “radicale”, che ancora (strenuamente) cerca di resistere.
Questo perché solo chi finge di non vedere né sentire può (realisticamente) sostenere e/o dare a intendere che da personaggi quali D’Alema, Violante, De Luca, Fassino, Veltroni, Bersani, Bassolino (e chi più ne ha, più ne metta) – senza neanche prendere in considerazione i vari Cuperlo, Civati e gli altri “emergenti” – ci si possa, ancora e finalmente, aspettare “qualcosa di sinistra”.