“Sarà un arbitro e non un giocatore”: così i primi commenti a caldo dopo l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, quasi a prendere le distanze dal ruolo giocato da Giorgio Napolitano, ritenuto evocatore di una sorta di “presidenzializzazione” della figura del Capo dello Stato nel quadro del nostro sistema istituzionale di tipo parlamentare.
A sostegno di questa tesi sono stati ricordati gli interventi fortemente invasivi per le riforme costituzionali; la difesa intransigente dell’Unione europea e della moneta unica; la lealtà, anche in ordine alla missioni militari, all’alleato americano; la designazione di ben tre premier non scaturiti dalle urne (Monti, Letta e lo stesso Renzi).
In verità da oltre venti anni, dall’inizio della cosiddetta seconda Repubblica, si è sancito un ruolo diverso del Capo dello Stato, per l’esigenza di ampliarne il ruolo di mediazione politica. Del resto nel nostro ordinamento costituzionale i poteri della presidenza della Repubblica sfuggono a una precisa configurazione. Nella realtà si dilatano allorquando l’impopolarità dei partiti e l’instabilità del sistema politico assume caratteristiche parossistiche, come ai giorni nostri. Da tempo infatti – con Scalfaro e Ciampi, prima che Napolitano giungesse al Colle – è cresciuta la funzione di “supplenza attiva” esercitata dal presidente della Repubblica.
Ma anche nella Prima Repubblica i presidenti hanno sovente assunto un forte ruolo di protagonismo politico: Einaudi come garante di politiche di stabilizzazione economica e di deflazione nel quadro della ricostruzione del paese dopo la fine della II guerra mondiale; Gronchi, che durante il centrismo sostenne l’apertura ai socialisti (e di converso Segni, dopo di lui, impegnato -secondo molti anche con ipotesi autoritarie – per svolte conservatrici); Saragat, che dal Quirinale favorì il centrosinistra e l’unificazione socialista; Pertini, succeduto a Leone (forse l’unico presidente davvero “notaio” assieme a Enrico De Nicola), che negli anni bui del terrorismo e della sfiducia dei cittadini per le istituzioni costituì il punto di riferimento di uno straordinario consenso popolare, utilizzando il cosiddetto “potere di esternazione”. Per tacere di Cossiga, le cui “picconate” all’agonizzante sistema politico nato dal Comitato di Liberazione Nazionale, gli valsero una richiesta di impeachment da parte del partito comunista.
Per anni molti politici, commentatori e studiosi, in gran parte di sinistra, hanno indicato in ogni ipotesi di Repubblica presidenziale o semipresidenziale l’anticamera del gollismo, o addirittura di un regime autoritario. Del resto gran parte della cultura politica dell’Italia repubblicana, dalla Costituente in poi, è stata ispirata a una vera e propria paura di ogni leadership forte. Certo, inizialmente per il ricordo della dittatura mussoliniana: e poi in polemica contro esponenti politici ritenuti “eretici” dalla cultura consociativa cattocomunista (dal repubblicano Randolfo Pacciardi al leader socialista Bettino Craxi). In concreto si temeva la riduzione del potere dei partiti, la cui influenza viene a essere necessariamente ridotta dalla centralità assunta da un presidente della Repubblica che sia anche a capo dell’esecutivo.
Anche Mattarella, a prescindere dalla sua stessa volontà, dovrà comunque cimentarsi con l’eredità politica di Napolitano e le spinte alla presidenzializzazione.