Forse della conferenza stampa di fine anno del premier Monti va (ac)colto un aspetto non secondario, reso esplicito in un paio di passaggi della disquisizione e per certi versi sempre sullo sfondo, anche grazie al suo tono flemmatico: le parole hanno un peso. Probabilmente si tratta di una delle dimensioni del discorrere più trascurate ai giorni nostri.
Dichiarare il contrario di ciò che si era detto pubblicamente poche ore prima è solo la versione estrema e la caricatura di un fenomeno più generale, diffuso anche negli aspetti minuti della vita quotidiana e nelle relazioni interpersonali. Come se un vocabolo valesse l’altro; come se fossimo immersi in uno scioglilingua permanente. Siamo oltre la dietrologia e oltre il retropensiero; oltre il forse inevitabile “leggere fra le righe”. Quasi anneghiamo in un fiume di “parole pazze”: vuote e nello stesso tempo bizzarre.
Di solito si insegna che il linguaggio si differenzia dalle varie lingue e dai vari idiomi nei quali si articola per la sua capacità di offrirci un discorso condivisibile, sfidando, oltre alle barriere spaziali, anche quelle temporali. Che abisso si registra però fra tale funzione e il nostro “blablablare” di ogni istante! Qui si rischia la Babele.
E guai a confondere la varietà, la ricchezza e la mutevolezza delle metafore e dei neologismi o le stesse acrobazie retoriche con il caos e con l’incomunicabilità. In fondo, probabilmente, il senso dello stesso principio di non contraddizione e la sua differenza rispetto a quello di identità risiedono proprio nell’esigenza di dare significato e coerenza alla comunicazione, nei limiti del possibile.
Insomma: è evidente la politicità di tutto ciò. Accanto al naufragio dei significati, si rischia l’inabissarsi della democrazia e forse della stessa convivenza civile.
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