Lo scorso settembre è stato presentato a Roma il “Manifesto per una democrazia globale”, redatto per iniziativa di una ONG di Buenos Aires e sottoscritto da un gruppo di accademici e di intellettuali di idee diverse, quali, tra gli altri, Jacques Attali, Ulrich Beck, Noam Chomsky, David Held, Fernado Savater e Richard Sennet. Per presentarlo sono state tenute conferenze in diverse città del mondo; originariamente, la presentazione ha avuto luogo nel giugno scorso presso la London School of Economics.
La tesi del manifesto è semplice e neppure nuova: l’economia è stata globalizzata, ma non anche le istituzioni politiche; gli esiti negativi che ne sono seguiti hanno determinato diffuse proteste nel mondo. Queste esprimono l’esigenza di “più democrazia e di una democrazia migliore”. In un universo sociale caratterizzato dalla globalizzazione, le capacità democratiche degli Stati nazionali e delle istituzioni internazionali sono state delegittimate da forti processi di carattere non democratico. Il disordine globale che ne è seguito impone ora la globalizzazione delle istituzioni politiche di regolazione e controllo, Tutto ciò, però, per i firmatari del Manifesto, non potrà avvenire se sarà l’obiettivo solo dell’azione di una élite autoeletta; la democratizzazione dell’ordine mondiale dovrà invece scaturire da un processo socio-politico aperto a tutti gli esseri umani, attraverso “l’istituzionalizzazione partecipativa di una democrazia globale”.
La tesi è esaltante ma è anche utopistica; ad essere realisti, viene subito da chiedersi: ma come si può realizzare un governo globale nelle condizioni attuali, se non si riesce neanche ad unire politicamente l’Europa, mentre altri Paesi del mondo, tra i quali l’Italia, sono a rischio di frantumazione? Il radicalismo dei realisti e degli utopisti ha condotto sinora alla individuazione di diversi modelli alternativi di regolazione delle relazioni internazionali; quello però che esprime un “pezzo di utopia” cui il Manifesto si richiama, e che può divenire realistico, evoca solo la realizzazione di un “governo di concertazione” delle relazioni.
Il modello presenta, però, dei deficit politici che sono percepibili in via immediata; esso è direttoriale e, in quanto tale, fondato sulla pretesa di inclusione dell’altro attraverso rapporti dominanti, che creano problemi di instabilità politica ed economica. L’unico aspetto positivo del modello basato sulla concertazione può essere rinvenuto, nel breve periodo, nella circostanza che esso può portare solo alla formazione di una global governance, ovvero ala formazione di un insieme di regole e di procedure esprimenti, in modo molto indiretto e tecnocratico, le istanze dei popoli che subiscono gli esiti negativi della globalizzazione. Tuttavia, data l’origine extrapolitica della concertazione, l’espansione e l’applicazione delle regole e delle procedure della global governance, lungi dal favorire il formarsi di forme di governo condivise dei rapporti internazionali, concorre a creare solo ulteriori motivi di conflitto.
Permanendo questo stato di fatto, quale speranza possono avere i popoli del mondo di vedere realizzata l’utopica aspirazione a una qualche forma di governo democratico globale? Sulla base di quanto sin qui detto, la risposta non può che essere questa: nessuna! A meno che, a differenza dei presupposti impliciti nel Manifesto, si assuma non la realizzazione immediata, totale o parziale, di un organismo istituzionale mondiale, ma l’attivazione, su basi contrattuali coinvolgenti tutti popoli del mondo, di un iter processuale finalizzato a dare corpo ad una ancora inesistente sfera pubblica mondiale, all’interno della quale radicare il riconoscimento della convenienza ad adottare, nella risoluzione dei problemi comuni, procedure democratiche, consensuali e condivise, all’interno di strutture istituzionali, anch’esse esito finale dello stesso iter processuale.
La processualizzazione della costruzione di un organismo soprannazionale democratico, al fine di governare l’economia globalizzata, dovrebbe concretizzarsi in un costituzionalismo globale, inteso come complessa dinamica politica per l’attivazione di alcuni sottoprocessi essenziali. Uno di questi dovrebbe tendere ad affermare la condivisione di un generalizzato umanitarismo, come fondamento dei diritti e dei doveri da garantire a tutti i soggetti che compongono i popoli del mondo. Un secondo dovrebbe essere teso a determinare, a livello mondiale, l’offerta di alcuni beni pubblici internazionali costituenti il fondamento dell’operatività della prospettiva del cosmopolitismo democratico, quali, ad esempio, l’assicurazione di un diffuso senso di sicurezza personale e di giustizia sociale e la progressiva realizzazione dei presupposti per una crescente partecipazione di tutti i cittadini dei popoli del mondo al dibattito ed al confronto pubblico all’interno della sfera pubblica nazionale ed internazionale. Un terzo sottoprocesso, infine, dovrebbe essere finalizzato a ricondurre l’interventismo statale, proprio del welfarismo, al rispetto ed alla salvaguardia dell’autonomia decisionale dei cittadini.
In conclusione, molto realisticamente, l’operatività della prospettiva del cosmopolitismo democratico può essere conseguita, allo stato attuale, solo fuori da ogni accordo interstatale, con il coinvolgimento, attraverso il confronto a livello mondiale, di tutti i movimenti di protesta degli Stati globalizzati; ciò, al fine di favorire la convergenza degli stessi Stati verso l’adozione di istituzioni per una governance globale, finalizzate a processualizzare il superamento del gap oggi esistente tra integrazione delle economie nazionali ed istituzioni politiche nazionali.
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