Voci dal mondo operaio
Partecipare alle manifestazioni dei lavoratori in sciopero, oltre che esercizio politico di solidarietà, è una straordinaria occasione di incontro con i componenti di quel fantomatico “paese reale” che tutti si candidano a rappresentare.
La GKN di Campi Bisenzio (FI) ha una storia lunga alle spalle. Alle origini era una fabbrica FIAT, situata nel quartiere Novoli di Firenze, assieme al resto del complesso industriale che una volta componeva quella zona, oggi occupata dal Tribunale – che coerentemente si presenta in stile “fabbrica di cioccolato” di Willy Wonka. Produceva, e tutt’oggi produce, semiassi ed elementi di trasmissione per autovetture per l’impero degli Agnelli.
Ad un certo punto però la FIAT, in linea con le nuove idee industriali che imponevano la decentralizzazione, decise di esternalizzare questi elementi della sua produzione, affidarli e gestirli – sempre in maniera eterodiretta però – alla GKN, la quale comprò questo stabilimento nel 1994 e lo trasferì a Campi Bisenzio nel 1996. La fabbrica che oggi è teatro di occupazione (parola vietata dal nostro ordinamento bigotto, che più pudicamente permette una “assemblea permanente”) è dunque nuova.
È giovane, sia di struttura che di manodopera. Non solo, ma basta osservare la struttura dall’esterno per notare che è fatta per durare. Non è il tipico grande capannone fatto di pannelli, di quelli che questo pessimo capitalismo di oggi ha come simbolo prediletto della propria architettura usa-e-getta. È un bel complesso, situato di fronte al famoso centro commerciale “i Gigli”, accanto ad un cinema multisala, e nel cuore di un’area industriale in espansione, perché in mezzo tra il distretto di Prato e Firenze.
Una chiusura della fabbrica sarebbe anche un gravissimo problema urbanistico, mi dice il Sindaco Emiliano Fossi, che in questa vicenda – assieme a tutta la comunità cittadina che partecipa con donazioni e atti di solidarietà – si sta spendendo molto in prima persona (ha vietato con un’ordinanza la circolazione di camion nella zona che potrebbero andare a prelevare i costosissimi e modernissimi macchinari della fabbrica).
Il perché la GKN voglia chiudere questo stabilimento, rispetto alle decine e decine che possiede in tutto il mondo, è dunque tutt’ora un mistero. Il licenziamento collettivo comunicato per email, dopo che con l’espediente di dare la giornata libera ai lavoratori le dirigenza ha fatto i bagagli ed è letteralmente scappata, nel bel mezzo di una stagione di lavoro e senza far presagire nulla di nulla agli operai, oltre alla rabbia lascia il campo alle più disparate teorie sui motivi di tale condotta.
La mossa a sorpresa in realtà se la spiegano tutti. Un colpo basso irrispettoso della dignità degli operai e delle loro famiglie, frutto di una precisa strategia per contenere le reazioni di quello che è uno stabilimento radicalmente sindacalizzato. Chi rappresenta i lavoratori della GKN infatti, oltre ai sindacati confederali numericamente emarginati, è il “Collettivo di Fabbrica”: un collettivo di lavoratori che pur aderendo alla FIOM, rimane autonomo, e ne rappresenta l’ala più radicale e antagonista.
Certo, anche il dissenso è un meccanismo del consenso, e il fatto che in Italia anche il collettivo più radicale abbia bisogno di aderire ad un sindacato confederale è la più grande dimostrazione di come le leggi del Lavoro e le vecchie logiche sindacali hanno creato nel nostro Paese un sistema corporativo in cui è difficile avere voce se si rimane fuori. E però non passa certamente inosservato lo scrosciante applauso che ha sollevato la richiesta di dimissioni rivolta a Maurizio Landini di un delegato sindacale che ha preso la parola all’apertura degli interventi esterni.
Dunque la dirigenza GKN aveva messo in conto la conflittualità, il mancato guadagno delle commissioni in lavorazione, e ha voluto tirare una riga sopra la cartina geografica sul nome di Firenze. Perché? Vuole in realtà licenziare solo una parte dei lavoratori e acquisire con questa mossa più potere contrattuale in vista delle trattative? Vuole snellirsi e sollevarsi da costi fissi? È in crisi di sovrapproduzione?
Questo non pare. È comunque l’argomento che anima di più le chiacchiere dei lavoratori, che in parte sperano nella sospensione dei licenziamenti e in una trattativa, e in parte sono già rassegnati: l’azienda di lì se ne vuole proprio andare. È stato bello, tanti saluti, non richiamate. La cosa che preoccupa di più è che questa chiusura possa essere un campanello d’allarme per altre chiusure riguardanti la FIAT, verso la quale lo stabilimento produceva più dell’80% dei pezzi: la vecchia azienda del potere italiano, ora diventata la multinazionale Stellantis, pare che stia lentamente abbandonando l’Italia – chiedere ai compagni di Melfi – dopo aver beneficiato delle più spregiudicate misure protezionistiche.
È a loro che infatti sindacati e Governo tentano di rivolgersi: “non è la nostra azienda”, pare sia stata la risposta. Tornando alla GKN, all’origine di queste incomprensioni e dei malesseri c’è un fattore poco considerato nella narrazione su questa vicenda, e che invece è stato nettamente preponderante in tutte le conversazioni che ho avuto.
A differenza della vecchia FIAT, la compagine “padronale” oggi è sostanzialmente dematerializzata. È un qualcosa di impalpabile, senza volto, che si esprime attraverso i manager che comunque a loro volta sono dei dipendenti, più o meno pagati, che si trovano a gestire queste “patate bollenti” che arrivano dall’alto. Anche nei tavoli col Governo nessuno si presenta, se non un legale, in collegamento online. Sembra a questo punto di immaginare il Megadirettore galattico di Fantozzi, che cinico si nasconde chissà dove, ma la realtà della multinazionale inglese non è questa.
La GKN oggi è una public company inglese (quindi sostenuta da un azionariato diffuso senza che ci sia un particolare azionista-proprietario dominante), strutturata in tre divisioni – areospazio, autotrazione, metallurgia – con il compito di massimizzare la redditività delle proprie vendite. Non sono presenti nella sua struttura dei compartimenti su base geografica. Non c’è un Avvocato, un padroncino, o un manager rampante, che rappresenti la faccia dell’azienda in Italia, e con cui si può trattare da uomini d’onore. È a questa logica che il sindacalismo conflittuale italiano è sempre stato abituato, e un compagno della UIL me ne parla con un po’ di nostalgia. Ora invece c’è il fondo britannico Melrose, che nel 2018 ha acquistato la GKN per 8,1 miliardi di sterline, e che è specializzato nel “comprare e migliorare attività poco performanti”, massimizzando il guadagno per gli azionisti.
C’è quindi una grande e comprensibile frustrazione degli operai nell’essere trattati come semplici numeri di calcoli algoritmici che arrivano da Londra e che certamente poco si curano delle mobilitazioni nelle piazze fiorentine. Le azioni che schizzano in borsa dopo l’annuncio della chiusa dimostrano del resto che il fondo sta facendo bene i suoi interessi, ma cosa possono fare gli operai per fare i propri? Se in Italia non c’è nessuno con cui parlare, le dimostrazioni di forza del sindacato rimangono rivolte allo Stato.
È lo Stato, o la Regione, che deve risolvere il problema a detta di tutti. Sotto accusa le politiche del lavoro, una mancanza di vera politica industriale, e gli accordi dei sindacati nazionali che permettono le delocalizzazioni, anche dopo che una multinazionale viene a prendersi tutti i sussidi statali fino all’ultimo.
Fino all’ultimo, appunto: dopo l’ultimo, via! Rimane da chiedersi quanto uno Stato, una Democrazia, possa permettersi di essere preda dell’estrema mobilità dei capitali internazionali: non si riesce a tassarli, non si può fermarli, e ora manco ci si può parlare. Mi si passi la provocazione: o si costituisce una socialdemocrazia mondiale, per continuare a tosare il capitalismo a beneficio di tutte e tutti, oppure la vecchia logica dove è lo Stato a dover mettere mano al portafoglio diventerà ben presto insostenibile. Dare soldi a chi viene, dare soldi per farcelo rimanere, dare soldi agli operai che rimangono senza lavoro se le due cose precedenti non funzionano, con il tema del reddito di base che incombe sulle agende di qualsiasi paese, senza poter tassare a pieno i capitali (fissi e mobili): tutto ciò non rappresenta modello virtuoso.
È quello del capitalismo clientelare a cui si è abituata questa Italia corporativa. Non è certamente un modello socialista. Cosa bisogna fare dunque alla GKN di Firenze? Serve per forza un padrone, un galantuomo con cui trattare e mettersi d’accordo, oppure serve far fare al mercato il suo libero corso lasciando che lo Stato si occupi delle conseguenze sociali? Le alternative non paiono molte, e magari ci fosse in Italia almeno una concorrente della Stellantis a cui rivolgersi! È possibile invece provare la via dell’autogestione? Fare dello stabilimento una cooperativa di lavoratori (che del resto sono circa cinquecento, meno di un terzo di un falansterio foureriano!).
Una prospettiva del genere non solo non sarebbe estranea alla storia del socialismo, specie di quello riformista, ma tutt’oggi è la soluzione a diverse crisi aziendali. Certo, si parla quasi sempre di piccole aziende, ma è recentissima la notizia che in Romagna sindacati e cooperative hanno siglato un accordo per il “workers buyout”, per aprire percorsi di questo tipo in caso di crisi aziendali e delocalizzazioni.
Ho “provocato” ogni persona con cui ho parlato su questo tema: nessuno si è tirato indietro, “sarebbe bello, ma la vedo difficile”, perché tutti hanno lamentato una mancanza di figure con il giusto know how in questo senso. Mancano figure adeguatamente formate, che possano guidare i lavoratori verso alternative migliori; il resto lo fa l’inerzia delle vecchie logiche e delle più facili (anche se grame) soluzioni. Io non ho paura di sembrare troppo idealista nell’affermare che preferirei vedere gli operai della GKN di Firenze prendere in mano il loro destino, invece che cercarsi un padrone migliore, magari solo perché “in carne ed ossa” .
Enrico Maria Pedrelli
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