Il Pci era assai radicato nella società: nessuna meraviglia, dunque, se la sua cultura politica, il suo approccio, anche psicologico, alla realtà continuino a farsi sentire.
Un fenomeno ricorrente nella vicenda di quella forza politica era di vivere il cambiamento come traumatico, da accettare soprattutto in quanto inevitabile. L’idea della necessità storica, dunque, prevaleva su quella delle opportunità. Casomai la necessità veniva vissuta come opportunità più tardi, in un momento successivo. E’ come se il Pci soffrisse di digestione lenta (ciò ha contribuito senz’altro alla percezione di una sorta di partito-chiesa). Esso riusciva a elaborare le novità, ma con fatica. E per contro, quando i suoi simpatizzanti e i suoi elettori (la base, in senso lato) coglievano prima e meglio dei vertici i sommovimenti sociali, ne davano spesso una lettura estremista, mostrando un deficit di elaborazione. Tendendo anzi a subire controvoglia le elaborazioni in chiave riformista dei dirigenti.
E’ un po’ come nella storiella del cieco e dello storpio. La “base” tendeva a percepire, i quadri tendevano a “metabolizzare” (con tanta fatica) più in nome del principio di realtà che per un’autentica consapevolezza degli scenari che si dischiudevano. Si tratta in fondo di uno degli aspetti del riformismo passivo del Pci. Passivo in quanto più subito che promosso. Faceva difetto soprattutto il senso della possibilità, una dimensione distinta sia dalla necessità, sia dall’illusione.
Anche di ciò vi era una certa consapevolezza, tuttavia: da qui il monito degli intellettuali legati al Pci di evitare le due tentazioni, quella del “determinismo” e quella del “volontarismo”. Eppure fra tali due “ismi” di continuo si oscillava.
L’ombra del Pci si fa sentire sulle formazioni alla sinistra del Pd, certo; ma pure fra i dem non mancano coloro che stentano a scorgere il possibile, facendosi piuttosto sopraffare dal “necessario”.