In queste elezioni il Pd, da solo senza SEL, ha preso alla Camera 8milioni e 642.700 voti; alle politiche del 2008 ebbe più di 12 milioni, esattamente 12.095.306, da solo senza Di Pietro. Ne ha persi dunque per la precisione 3.452.606.
Berlusconi è passato da più di 13milioni e mezzo a 7 milioni e 300mila. Ha fatto dunque anche peggio, si è quasi dimezzato. Ha perso di più, ma considerati i danni prodotti dal suo governo, la sua impresentabilità europea e mondiale e le previsioni della vigilia, bisogna prendere atto con realismo che il vero sconfitto di questo febbraio 2013 è il Pd, che avrebbe dovuto incassare il profitto politico della conclusione definitiva della stagione del Cavaliere di Arcore. Il fatto che non ci sia riuscito suona come una condanna in pratica irrimediabile.
Raramente i numeri, che lasciano nell’oscurità il problema della governabilità, hanno parlato così chiaro, dicendoci a chi hanno tolto il consenso e a chi l’hanno dato (non è difficile dunque cercare l’origine degli 8 milioni e 700mila di Grillo). Le riflessioni approfondiranno le ragioni dell’affermazione dei Cinque Stelle, la loro sintonia con il rifiuto del vecchio ceto politico, con i sentimenti antieuropei, con l’austerità, con le semplificazioni populiste e antifiscali. E alcuni di questi fattori sono lì anche a spiegare come e perché anche Berlusconi abbia potuto recuperare un bel gruzzolo di voti rispetto alle attese di qualche mese fa. E nei ragionamenti a seguire entreranno certo anche le recriminazioni su una miserabile legge elettorale, che fu pensata su misura per impedire a Prodi e all’Ulivo di avere una maggioranza stabile nel 2006. E sopra tutto il resto apparirà, indiscutibile, la pesantezza del malessere sociale, la durezza del passaggio di una recessione che ha costi umani alti, in disoccupazione, sacrifici, tasse.
Ma al centro della scena rimane il rifiuto, da parte dell’elettorato italiano, di un’alternanza che poteva conferire al centrosinistra, guidato dal segretario del Pd, la possibilità di governare per una legislatura. Ecco perché il Pd è il vero perdente di queste elezioni. Agli elementi tattici – una campagna elettorale in tono dimesso, nonostante la percepita discesa di consensi – si aggiungono i vuoti di strategia e la mancanza di risposte nei confronti di un elettorato che affacciava da tempo richieste chiare di cambiamento: ridurre il numero dei parlamentari, differenziarsi più nettamente da vecchi vizi della classe politica, recuperare un rapporto con una opinione pubblica sfiduciata.
Il Pd di Bersani questi problemi li ha percepiti. E infatti la carta degli intenti, nonostante la sua vaghezza su punti programmatici controversi come la legislazione sul lavoro, indicava come un problema centrale quello della rottura che si era ormai consumata tra i cittadini e le istituzioni politiche, ma non riusciva a farne seguire una azione, una proposta che indicasse una chiara direzione di cambiamento. Al contrario la campagna elettorale (Italia giusta, il bene comune) è stata difensiva. È stata in fin dei conti una campagna di autodifesa di un vecchio elettorato in progressiva erosione, una campagna da «guerra di posizione» non una campagna da «guerra di movimento» (per usare la celebre distinzione gramsciana) verso un futuro da conquistare.
Errore esiziale. Tanto più esiziale perché con le primarie di coalizione il Pd aveva messo in evidenza una possibilità alternativa: rinnovamento del gruppo dirigente e conquista del centro dell’elettorato, e della scena. Renzi aveva rappresentato questa possibilità con una notevole forza, anche se non sufficiente a vincere. Ma lo stesso Bersani aveva mostrato di poter raccogliere i segnali propulsivi che l’insieme delle primarie aveva mandato. Ma ben poco ne è seguito. La vocazione conservatrice della vecchia sinistra italiana a una politica di «manutenzione» del suo consueto elettorato ha prevalso su tutto il resto. L’avventura del cambiamento è una prospettiva che si è preferito lasciare ad altri, con i risultati da incubo, che ora abbiamo davanti agli occhi.
E’ necessario cambiare la scala della riflessione. Allego e saluto.
Franco Paolinelli
ENTUSIASMO DELLA CONSAPEVOLEZZA
Le società occidentali appaiono attualmente dominate da un senso di paura e di rabbia.
Questa condizione è comprensibile. E’ in atto, infatti, una grande trasformazione: la scala della comunità tecnologicamente possibile è ormai globale, ma le condizioni culturali non sono ancora adeguate, la conflittualità diffusa è inevitabile. Il salto di scala, necessario a creare un nuovo assetto, è di grandezza proporzionale, ma gli strumenti di governo, in senso lato, sono ancora poco più che nazionali. La biologia della specie e le sue strutture sociologiche stanno cambiando con velocità crescente ed i poli comportamentali, necessariamente, si divaricano.
Parallelamente si allontanano le aspettative di status introiettate negli anni dello sviluppo e poi sostenute dallo Stato con il debito.
I conflitti politici, i problemi ambientali e sociali sono la conseguenza di questo processo globale, che, quindi, in grande misura, prescinde dall’abilità dei singoli politici.
Come disse Giorgio Bocca, l’insieme di quanto detto, necessariamente, determina una diffusa sensazione di spaesamento. Condizione esasperata anche dal fatto che un colpevole vero e proprio non lo si può indicare. Ne prendiamo a turno l’uno o l’altro, ma nel profondo sappiamo che la paura è data dalla stessa scala del processo in atto.
Questo stato d’animo è vissuto, più o meno, intensamente, in ogni ambito della vita civile e diventa, a sua volta, fattore di stress della vita quotidiana, dal traffico, allo sportello antipatico, dalla riunione condominiale, all’infermiere sadico….
C’è chi cerca di proteggersi con vetri scuri del SUV o con gli occhiali da sole, ma, sotto il vetro hanno paura anche loro.
Politicamente questo stato d’animo, privo di fiducia o speranza porta a scegliere il no, il rifiuto di ogni progetto sociale che vada oltre il proprio microcosmo, ovvero il populismo.
Chi vive questa pulsione di rabbia non può percepire la portata delle trasformazioni in atto e, quindi, vede le componenti della società civile che cercano di gestire i difficili processi in atto come nemiche. Non ne può cogliere il senso di responsabilità, quasi che fosse il loro stesso impegno a determinare l’immigrazione, i limiti ambientali, il deficit cui fare fronte…..
Quindi, politicamente sceglie chi irride i portatori di responsabilità.
I partiti tradizionali, per conservare la propria fetta di mercato e nutrire gli apparati, sono costretti ad inseguirli. Coerentemente, alla scala nazionale, i progressisti di ieri si trovano nella difficile condizione di richiamarsi a valori di solidarietà e difendere al contempo interessi consolidati e spesso corporativi. La complessità delle loro stesse macchine li rende, peraltro ottusi, impermeabili all’emozione, come dimostrato dalle recenti elezioni.
Richiamarsi alla “responsabilità” è alternativo a tutto ciò. Vuol dire, infatti, intuire le dinamiche di scala superiore in atto e partecipare, come possibile, all’edificazione dell’assetto sociale necessario. Quindi, saper vedere le esigenze di sostenibilità della comunità oltre quelle individuali.
Quanto detto dovrebbe spingere i portatori di responsabilità, quale che sia il loro partito politico di riferimento, a porsi in un’ottica di guida dei processi, alternativa alla paura, al rancore, al danno ambientale o sociale come forma di compensazione del proprio spaesamento.
Ma, per farlo, per vedere l’evolvere fisiologico dei processi e sopportarne i tempi sono necessarie la lungimiranza e la tenacia. Conservare l’impegno per l’edificazione dell’assetto possibile, infatti, non è facile.
La scala e l’idea di assetto sociale possibile non sono evidenti. La società utopica è ancora difficile da immaginare. Non è chiara le sua fisionomia tecnologica, biologica, culturale, sociale e politica.
Peraltro, mentre l’assetto necessario è globale, l’insieme delle forze umane che dovrebbero crearlo è ancora frammentato nelle molteplici realtà locali.
Coerentemente, l’immagine del progressista responsabile non va di moda quanto è andata in decenni addietro. Quindi, non interessa chi sposa determinati comportamenti solo se gli offrono un profitto d’identità, quindi, ora, non paga proporla, ne in termini di immagine, ne di posizione politica. Detto ciò, oggi, la responsabilità non è da tutti.
Andrebbe, quindi, esplicitato come abbia ben ALTRO STATUS, chi, nelle Istituzioni, nelle Imprese, nella Società Civile, nella Politica riesca, comunque a metterla in atto, rispetto a chi si lascia dominare dalla paura ed a chi persegue il solo, brevi mirante, interesse personale, ovunque militi.
I primi, infatti, si fanno carico dei problemi vissuti e determinati dai secondi. Meglio o peggio lo fanno, perché è nel loro codice bio-culturale farlo.
Ma, esplicitare la portata dei cambiamenti, far capire quale sia, oggi, la posta in gioco, può evidenziare l’importanza del loro impegno. Può stimolare la loro stessa curiosità ed il piacere di partecipare. Può, quindi, portare la loro assunzione di responsabilità a divenire ENTUSIASMO DELLA CONSAPEVOLEZZA E DELLA RAGIONE.
Non è facile, ma solo questo punto di partenza potrà riportarci alla fiducia, quindi a liberare le energie, oggi compresse, della costruzione.
In altre parole: non ci può essere progetto se non alla scala del cambiamento in atto. Tanto più ampia è questa, tanto maggiore deve essere l’impegno per costruire il futuro possibile. Ma tanto maggiore può essere l’emozione del farne parte, dello svolgere un ruolo positivo per il suo possibile compimento, dell’accettare la sfida dell’evoluzione.
Peraltro, sarà solo l’entusiasmo lungimirante dei pochi ad aiutare i tanti a superare la paura ed a voler costruire il futuro possibile.
E’, peraltro, ormai, chiaro come l’evidenziare la grettezza del contro, le malefatte dei profittatori o le sconcerie del Re, sempre più nudo, non porti chi vive nella paura a scegliere la costruzione della comunità. Anzi, produce altra paura ed alimenta i modelli della chiusura e conferma le scelte del no.
Non sarà, quindi, la rissa isterica, ne la sola denuncia delle schifezze dell’uno o dell’altro degli antagonisti politici che potrà riportare attenzione alla responsabilità, all’edificazione ed all’impegno costruttivo.
Sarà solo l’acquisizione di consapevolezza che potrà portare al superamento della paura ed al porre le basi perché chi ha la forza necessaria accolga e sposi il progetto necessario a costruire la società possibile. L’unica vera salita in politica.
Inoltre, va detto come la forma più sofisticata ed efficiente di assunzione di responsabilità sia messa in atto da chi, con coraggio, per il profitto o meno, intraprende. Da chi ha un’idea e lotta per portarla avanti, contro ogni paura ed ogni resistenza.
La libertà di impegnare le proprie energie e risorse per realizzare un qualcosa è, peraltro il nocciolo dell’idea liberale, radicata, per noi italiani, nella fierezza risorgimentale.
Il suo nucleo etico e storico, infatti, non è nella conservazione dei privilegi, ma nella liberazione delle energie vitali, quindi, nella creazione di opportunità. Quindi, nella sua essenza, è un‘idea progressista e può, nel quadro di norme certe, essere anche solidale e responsabile.
Quanto detto è tanto più vero, oggi, per i settori della cosiddetta “green economy”, che potrebbero valorizzazione i fattori produttivi disponibili, nel bene dell’ambiente e della comunità. Potrebbero ridurre l’entropia, creando, quindi, organizzazione ed espansione sostenibile.
Franco Paolinelli 2-2013