Se qualcuno vuole capire perché i sindacati della scuola protestano contro un governo che ha deciso di assumere centomila precari, può dare un’occhiata agli articoli di Giovanni Cominelli e di Anita Gramigna che abbiamo pubblicato nel numero di aprile della nostra rivista.
Non sono articoli di commento puntuale, ma servono comunque più della marmellata uscita dal mixer delle consultazioni on line: con buona pace non solo dei feticisti della democrazia diretta, ma anche dei furbetti del sondaggino, che non hanno avuto il coraggio di indicare esplicitamente il paradigma che tiene insieme le singole proposte di riforma.
Il paradigma è quello che concepisce la scuola come una comunità educante, e non come una specie di ministero che somministra lezioni ex cathedra giustapposte l’una all’altra: il che è indispensabile in un contesto in cui si sono moltiplicate le fonti del sapere ma si sono rarefatte quelle del capire e dell’interpretare.
E’ in questo contesto che i ruoli dei docenti devono diventare più flessibili, che le retribuzioni debbono essere articolate, che il reclutamento deve dipendere dalle esigenze specifiche del progetto didattico di ciascuna comunità, che i dirigenti debbono essere responsabilizzati. Tutta roba indigesta per sindacati abituati a manipolare graduatorie di precari, a custodire carriere automatiche, a lucrare su inutili corsi d’aggiornamento. E tutta roba incomprensibile, anche, per un sistema mediale abituato a delegare agli “addetti ai lavori” la trattazione di temi che vadano al di là di un naso capace di annusare solo scandalismo e sensazionalismo.
Comunque in questo caso gli addetti ai lavori con cui discutere non vanno cercati fra i sindacati della scuola, che non sono il medico ma la malattia. Dovrebbero essere i giovani, se sapessero trovare forme di partecipazione diverse dai centri sociali e darsi rappresentanze degne di questo nome; e dovrebbero essere le famiglie, se non considerassero la scuola come un comodo parcheggio per la propria prole.
Fra gli addetti ai lavori dovrebbero essere ovviamente annoverati anche i sindacati. Ma quelli veri. Quelli cioè che organizzano la forza lavoro in un mercato sempre più esigente e sempre più affamato di competenze e di saper fare. Ci faccia quindi sognare, la ministra Giannini: e invece di ripararsi dietro i sondaggi si appelli agli stakeholder (un po’ d’inglese lo mastichiamo anche noi), metalmeccanici o addetti al terziario che siano.
La “Buona scuola” non cambierà molto la scuola italiana. Né la peggiorerà perché in senso generale non c’è nulla da peggiorare o migliorare. In realtà non esiste la scuola italiana, esistono le scuole con il lavoro dei docenti, lo scarso interesse degli studenti, la proposta culturale. Talvolta soffocate dalla polvere, altre volte incredibilmente vive, forti, appassionanti. L’unica vera riforma è il formarsi delle scuole intorno ad un progetto comune docenti – studenti, autonomo, condiviso, partecipato. Fatti salvi pochi punti comuni e la dotazione finanziaria pubblica, la buona scuola che immaginiamo è espressione del comune auto organizzato (orari, materie, gestione edifici). Né pubblica, tanto meno statale, né privata.
Temo che questo sia il risultato di una comunità (l’Italia) che ha sempre inteso la scuola come qualcosa di “ornamentale”, da cui lo strano feticismo classicista dei programmi. La scuola fornisce da relativamente poco un’educazione che dia qualche base per un prosieguo concreto nella società. Una serie di cose bellissime giustapposte senza senso pratico, senza scopo se non una formazione astratta che nemmeno arriva. Alla fine il disinteresse degli studenti è solo una risultante.
Uno storico ha scritto: “Con gli insegnanti lo Stato rinnova il suo patto preferito: ti do poco ma ti chiedo poco. Così fa degli insegnanti una categoria generalmente prona, che deve usare le proprie capaictà di protesta per ottenere retribuzioni migliori, tanto che, nonostante siano circa un milione, i docenti non intervengono mai per un effettivo cambiamento della scuola”.