Dopo la pronuncia della Consulta, la riforma della legge elettorale, si dice giustamente, non è più rinviabile: a condizione, però, che soddisfi non solo quelle che sono indicazioni del giudice delle leggi, ma anche (e soprattutto!) del popolo sovrano. Nella proposta Renzi-Berlusconi non viene accolta quella che appare la domanda più forte dei cittadini: la possibilità di scegliere, con le preferenze, gli eletti. Vero è che la Corte Costituzionale, con la sua sentenza invero di tipo manipolativa, non ha accolto il ricorso relativamente alle preferenze: ma è altrettanto vero che assieme alla domanda democratica degli italiani bisognava tenere in conto l’interpretazione sostanziale dell’art. 67 della Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. La circostanza di essere indicato in lista da un partito e non di essere eletto con la preferenza sul nome, con meccanismo proporzionale o collegio uninominale, viola la libertà del parlamentare, che risulta legato al leader politico che lo ha scelto e non al popolo sovrano.
L’Italicum, perciò, ripropone gli stessi “vizi” antidemocratici del Porcellum, ivi compreso quello del premio di maggioranza, che verrebbe conferito al partito o coalizione che raggiunga solo il 35%. Al confronto con l’Italicum persino la legge Acerbo con cui il duce nel 1924 vinse le elezioni appare più democratica. Quel meccanismo infatti, prevedeva l’adozione di un sistema proporzionale con premio di maggioranza all’interno di un collegio unico nazionale, suddiviso in 16 circoscrizioni elettorali. A livello circoscrizionale ogni lista poteva presentare un numero di candidati che oscillava da un minimo di 3 a un massimo dei due terzi di quelli eleggibili (non più di 356 su 535); oltre al voto di lista era ammesso il voto di preferenza. E infatti con la legge Acerbo, agli albori della dittatura fascista, il Partito comunista di Gramsci con il 3,74% elesse 19 deputati.
Per non parlare della cosiddetta “Legge truffa”, approvata su impulso di De Gasperi nel 1953 dalla maggioranza centrista contro il blocco socialcomunista e le destre monarchiche e neofasciste, che introdusse un premio di maggioranza consistente nell’assegnazione del 65% dei seggi della Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse raggiunto il 50% più uno dei voti validi. Le liste apparentate di Dc, Psdi, Pli e Pri ottennero il 49,24% dei voti, mancando, seppur di poco, la soglia introdotta dalla nuova legge elettorale per ottenere il premio di maggioranza, finalizzato a garantire la governabilità, ma senza comprimere il valore del pluralismo e le diverse identità politiche ed ideologiche del tempo.
La proposta di Renzi si inserisce nel quadro dell’omologazione liberista prodotta dalla globalizzazione, con il tentativo di costruire attraverso la legge elettorale un sistema politico di tipo oligarchico: una sorta di club ristretto ed esclusivo di partiti ammessi alla rappresentanza parlamentare, che cancellerebbe il pluralismo culturale all’insegna del modello delle “Due destre”, secondo lo schema che di recente Carlo Galli ha ripreso, rilanciando le analisi di Marco Revelli: quello in cui, attorno al totem del mercato e della finanza, un partito tecnocratico ed uno populista sarebbero chiamati di volta in volta ad ottemperare alle direttive della Troika (il Fondo Monetario Internazionale controllato di fatto dalla finanza angloamericana, l’Unione europea egemonizzata dalla Germania della Merkel, la Banca centrale europea), e delle sue “cinghie di trasmissione” nelle alte istituzioni.
D’altronde, i toni sbrigativi e di sufficienza con cui il segretario dei democratici liquida il dissenso interno, sembrano ispirarsi all’opera di Carl Schmitt ed alle teorie politologiche “decisioniste”. Il giurista tedesco infatti teorizzava la decisione politica nello Stato come fondata su di un ordine, rilevando che la normalità è prodotta dalla decisione sovrana che instaura l’ordine, e a sua volta la decisione presuppone un’organizzazione concreta di potere, un’istituzione.
Per Schmitt la costituzione necessita di un ordine sovrano per diventare attiva. Schmitt chiarisce a più riprese come il sovrano non sia altro che una secolarizzazione del Dio cristiano: infatti, come Dio crea il mondo ex nihilo sulla base della sua volontà (e non della ragione), così il sovrano crea dal nulla l’ordine giuridico, prendendo una decisione che scaturisce dalla volontà e non dalla ragione. È in questo senso che Schmitt parla, in Teologia politica, del “Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore”. Come diceva Hobbes, il primo decisionista della storia, “auctoritas, non veritas, facit legem”.
Ai giorni nostri, vulnerata la sovranità degli Stati nazionali dalla globalizzazione economica e finanzaria, sembra compiersi il disegno descritto quasi un anno fa su Foreign Affairs da uno studioso del pensiero unico globalista, Fareed Zakaria: che parlò di “nuova crisi della democrazia”, con un esplicito riferimento al rapporto The Crisis of Democracy della Trilateral Commission del 1975, preparato dal gruppo di politologi e sociologi formato da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki.