Sylvia Nasar, autrice del bestseller mondiale “A Beautiful Mind” per la biografia del matematico e premio Nobel per l’economia John Forbes Nash jr., ha pubblicato di recente un ponderoso volume sui geni che hanno creato l’economia moderna ed hanno cambiato la storia del mondo. In “L’Immaginazione Economica”, la Nasar narra dell’impegno profuso da Karl Marx, Joseph Schumpeter, Alfred Marshall, Irving Fisher, John Maynard Keynes, Friedrich Hayek, Milton Friedman, Paul Samuelson, Amarya Sen e da altri ancora, tra i quali potrebbero essere ricordati in particolare Kenneth Boulding ed Herman Daly, per salvare l’umanità dal terribile destino che i secoli antecedenti il XIX sembravano averla condannata. “L’Immaginazione Economica” racconta infatti come i principali esponenti della “scienza triste” (The Joyless Science, come l’aveva definita Thomas Carlyle) hanno contribuito ad immaginare un mondo migliore, più prospero e più giusto, anche se non ancora per tutti.
Non in tutti i tempi, tuttavia, la teoria economica ha goduto di buona fama; nei momenti di crisi, questa teoria e gli economisti sono stati sempre esposti al rischio di una crescente delegittimazione. Da che cosa deriva, in realtà, questo rischio? Per rispondere può essere sufficiente l’analisi impietosa che, qualche tempo fa, Bernard Maris, economista magrebino dell’Institut d’Etude Européenne di Parigi, nella sua “Lettera aperta ai guru dell’economia che ci prendono per imbecilli” ha compiuto della teoria economica e dell’attività dei suoi “addetti ai lavori”.
Con la sua critica, Maris ha inteso osservare che la assiomatizzazione della teoria microeconomica, privilegiando il momento del rigore analitico e la considerazione di aspetti particolari della realtà economica rispetto al momento della fondazione empirica e della considerazione del funzionamento dell’intero sistema economico, ha determinato la scomparsa della dipendenza della teoria economica dalla storia e l’estraniazione da essa di tutti quegli elementi storici che il suo progredire logico-formale ha trasformato progressivamente in “dati”. E il suo sempre più frequente uso acritico ha portato i microeconomisti ad essere vittime, come avrebbe detto Karl Raimund Popper, della più pericolosa delle ideologie, consistente nel pensare che una cosa astratta sia concreta, esponendoli perciò al rischio di perdere ogni credibilità professionale. Il progressivo svuotamento di ogni riferimento fattuale, secondo Maris, ha portato la microeconomia a non poter essere utilizzata con successo per scopi normativi. Infatti, quando gli economisti hanno preteso di esorcizzare il futuro dei sistemi sociali liberandoli da probabili “insidie” non hanno potuto che fallire nel loro intento. Giudizio più spietato a danno della teoria economica e degli economisti professionali non avrebbe potuto essere formulato.
A trarre le teoria economica e gli economisti dalla bocciatura inappellabile di Maris provvede Sylvia Nasar, considerando la teoria economica non dal punto di vista dello studio di un particolare settore o del comportamento di un particolare operatore, ma dal punto di vista dello studio del funzionamento dell’intera economia nazionale, secondo una prospettiva macroeconomica. E’ partendo da quest’ultimo punto di vista, che il desiderio di mettere l’uomo nella condizione di forgiare il proprio destino è stata, come ha sostenuto Alfred Marshall, la “molla principale di quasi tutti gli studi economici” e molti economisti del suo tempo, ispirati dai grandi progressi che le scienze naturali avevano potuto realizzare dopo essersi liberate dalle catene dei secoli bui, hanno incominciato a forgiare uno strumento (la teoria economica) con cui analizzare l’”ingegnosissimo e potentissimo meccanismo sociale” che stava “creando un’opulenza materiale non solo mai vista prima, ma anche una straordinaria ricchezza di nuove opportunità”. Un tale meccanismo sociale, cioè l’ideale organizzazione di un libero sistema economico inquadrato all’interno di un libero sistema politico, era destinato, sia pure in prospettiva, a cambiare la vita di tutti gli abitanti del pianeta. Restava, tuttavia, un problema irrisolto, che John Maynard Keynes ha successivamente designato come “il problema politico dell’umanità”, riguardante il modo in cui combinare l’efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale.
Anche per la soluzione di questo problema non è mancato il contributo del pensiero economico, con l’elaborazione delle modalità utili a dare corpo all’idea di una giustizia sociale realizzata nel rispetto dei principi di efficienza e di libertà individuale. Quest’idea, prospettata e teorizzata inizialmente in termini potenziali, si è diffusa in tutto il mondo, fino ad avviare un processo che ha iniziato, e continua ancora, a trasformare i sistemi sociali di tutto il pianeta.
I pensatori economici, quindi, sotto la diretta influenza del liberalismo, sono sempre stati motivati, non solo dalla curiosità intellettuale, ma anche e forse soprattutto dal desiderio di trasformare gli uomini in artefici del proprio destino”; cioè, dal desiderio che le loro idee potessero essere usate per promuovere sistemi sociali caratterizzati “dalla libertà individuale e dall’abbondanza invece che dalla rovina morale e materiale”.
Come lo stesso Keynes pensava, lo sviluppo della teoria economica ha potuto così trasformarsi in “un motore d’analisi in grado di separare il grano dell’esperienza dalla pula”, convinto che le “idee economiche avessero trasformato il mondo più del motore a vapore”. Per tutte le ragioni esposte, contro ogni interpretazione riduttiva della scienza economica, è quindi necessario farne tesoro, considerandola come uno strumento per realizzare, dopo averlo immaginato, un futuro migliore del mondo attuale, prima che i suoi rudi costruttori, come ha osservato Lucio Villari su “la Repubblica”, lo distruggano, in nome di una crescita senza limiti e regole per una presunta civiltà del benessere.
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