I protestanti italiani, ricordando il 17 febbraio 1848, quando i valdesi delle Valli del Piemonte (e poi gli ebrei del Regno sabaudo) ottennero i diritti civili (non la libertà di culto al di fuori delle Valli, che tuttavia seppero in seguito conquistarsi), hanno promosso anche quest’anno la “settimana della libertà”. Peccato che la risonanza mediatica dell’evento sia stata, come di consueto, assai scarsa. Esso avrebbe potuto offrire l’occasione per una riflessione più che mai irrituale sulla libertà religiosa, al cospetto del fenomeno islamista e di ogni forma di integralismo.
Si confrontano nel dibattito politico-culturale, di fatto, due atteggiamenti di fondo: quello volto a superare la legge sui “culti ammessi”, sostituendola con una sulla libertà religiosa, e quello che diffida soprattutto dell’ “islam radicale” e considera indispensabile esercitare una sorta di tutela sulle stesse attività di culto.
Per seguire una definizione ormai proverbiale, la libertà di ciascuno (singolo o gruppo che sia) finisce dove inizia quella altrui. Perciò il problema consiste nell’individuare il modo migliore per contrastare il fanatismo e l’intolleranza, senza dimenticare che la mentalità teocratica, nelle sue varie forme, ha caratterizzato quasi tutte le fedi e le espressioni religiose. L’obiettivo, dunque, è di promuovere la laicità, intesa come distinzione fra istituzioni e convinzioni personali e fra istituzioni e “spazio pubblico” della discussione.
La sfida delle minoranze protestanti italiane è di accrescere contemporaneamente gli spazi di libertà, laicità e dialogo, in modo che ciascun soggetto contribuisca a rafforzare la democrazia. Pretendere di difenderla con la repressione o con il paternalismo suonerebbe in effetti paradossale.