Dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine del comunismo di Stato di stampo totalitario nell’Europa dell’Est nel 1989, Francis Fukuyama, riscoprendo l’idealismo di Hegel, proclamò “la fine della storia”. Con questa apodittica affermazione il politologo nippo-americano intese affermare la definitiva vittoria del mercato sulla socialità, del privato sul collettivo, senza nessuno spazio intermedio costituito dal riformismo delle socialdemocrazie europee nel ‘900: tesi che – con la globalizzazione e la finanziarizzazione economica – sembra oggi vieppiù fondata.
La conseguenza, dal campo economico a quello giuridico, sembra essere la vittoria della lex mercatoria, con diritti ormai apolidi che vagano nel mondo globale, alla ricerca di un costituzionalismo anch’esso planetario che prospetti loro nuove radici, dopo la crisi della sovranità nazionale in cui anche l’umile mugnaio di Potzdam poteva opporre all’arroganza di un nobile l’invocazione di “un giudice a Berlino”.
Nello spazio globale i diritti si dilatano e scompaiono, si moltiplicano e si comprimono, aprono opportunità collettive e chiudono spazi, redistribuiscono potere e diventano subalterni nei confronti di un nuovo “universalismo imperiale” e delle sue tavole: proprio lo ius mercatorum del medioevo, nato, in alternativa allo ius commune (e anche al diritto canonico), dallo stratificarsi degli usi e delle consuetudini del commercio, e progressivamente istituzionalizzato negli statuti – con l’affermarsi delle corporazioni – come diritto “speciale” (perché applicabile ai rapporti commerciali e perché creato dal ceto dei mercanti), e come diritto “universale” destinato a regolare i rapporti tra mercanti indipendentemente dalla loro nazionalità, dai luoghi dello scambio e dalle regole che in essi erano vigenti. Un diritto, inoltre, che si caratterizzava per l’onnicomprensività del suo ambito di efficacia: l’equivalente ai nostri giorni della business community, che vuol porsi come ordinamento autonomo e sovranazionale destinato a disciplinare i rapporti commerciali internazionali su un piano di prevalenza o di parità con le leggi nazionali o le convenzioni internazionali.
Nelle diverse dimensioni istituzionali, che contribuiscono a comporre la galassia della globalizzazione, si cerca di riscrivere il catalogo dei diritti, arrivati, per dirla con Norberto Bobbio, alla “terza generazione”. Si reinterpretano quelli già riconosciuti, se ne aggiungono di nuovi, si interviene negandoli tutti, secondo lo schema di una bella e recente riflessione di Stefano Rodotà: “Senza che però sia possibile chiudersi nell’angustia delle storiche frontiere, perché la circolazione e il confronto tra i diversi modelli sono imposti, in primo luogo, dal prepotente emergere di comuni bisogni materiali, dalla comune influenza dell’innovazione scientifica e tecnologica, dalla violenza di una finanza senza regole, dunque da quell’intreccio di relazioni e dipendenze, da quella nuova distribuzione di poteri, da quel continuo obbligo di fare i conti con gli altri, con tutti gli altri, che appunto si definisce globalizzazione”.
Lo storico appello alla “lotta per il diritto” si declina, oggi, come lotta per “i diritti“: e dinanzi ai processi di integrazione globale del mercato e della comunicazione è riemersa la riflessione sui diritti fondamentali nelle democrazie pluraliste, tradizionale oggetto di studio per filosofi del diritto e costituzionalisti, nella prospettiva di un “costituzionalismo globale”, che va dalla Weltbürgerliche Absicht di Kant al monismo di Hans Kelsen, fino a teorie più recenti, dialettizzate con le tradizionali categorie della cittadinanza.
Si pone sul piano storico-giuridico un problema: l’affermazione di un catalogo di diritti e delle loro garanzie – che rappresenta il nucleo essenziale del costituzionalismo moderno – per uscire dal dominio del mercato e delle oligarchie economiche che hanno “privatizzato la politica” e ridotto la partecipazione democratica.
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