La morte dello storico marxista ha dato “il via” a numerose recensioni tra i marxisti militanti dell’opera e dell’impegno del Maestro; molti di essi però, col cuore a sinistra ma con lo sguardo rivolto nostalgicamente verso l’esperienza fallimentare dell’ex URSS, hanno mancato di cogliere il vero significato di ciò che lo storico scomparso ha lasciato in eredità a quanti oggi sono interessati alla comprensione dei fenomeni sociali e politici. E’ Eric Hobsbawm stesso ad indicarlo: nella prefazione a “Come cambiare il mondo”, che raccoglie la riflessione su Marx e il marxismo compiuta nell’arco della sua vita di studioso dal 1956 sino all’ultimo dei suoi giorni, afferma esplicitamente che quello che ha cercato di fornire ai lettori è la consapevolezza che la “discussione su Marx e il marxismo non può essere confinata né al dibattito pro e contro, né al territorio politico e ideologico occupato dalle varie, cangianti etichette attribuite ai marxisti ed ai loro antagonisti”.
Si tratta, per un pensatore marxista, di una posizione sui generis; perché, come osserva Donald Sassoon, essere storico e comunista non è un fatto eccezionale, lo è invece rimanere fino alla fine un comunista non pentito. Ma che tipo di comunista è stato Hobsbawm? La risposta all’interrogativo l’ha data ancora una volta lui stesso. Egli è appartenuto alla generazione per i cui componenti la speranza di “cambiare il mondo” era così forte che abbandonare il Partito comunista era come cedere alla disperazione. Ma deve averci seriamente pensato, se si considera che, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, non ha esitato assieme ad altri intellettuali comunisti britannici a denunciare i crimini dell’URSS e la falsa visione dei fatti sino ad allora condivisa sul conto del comunismo sovietico. Tuttavia, Hobsbawm, già prima del 1956, aveva smesso di ammirare la società sovietica e le burocrazie pseudo-comuniste delle Repubbliche polari dell’Est europeo. Hobsbawm è stato quindi un comunista, ma non uno “storico comunista”, nel senso che la sua produzione scientifica ha ben altro significato rispetto a quella di molti “storici comunisti organici”.
Per Hobsbawm, Karl Marx e il marxismo, affrancati dalle strumentalizzazione, hanno ancora molto da dire; soprattutto nel momento in cui la crisi iniziata nel 2008 sta sconquassando le economie di tutto il mondo, sebbene Marx e il marxismo del XXI secolo assumano un significato assai diverso da quello del XX secolo, maturato però successivamente alla morte di Marx. Il marxismo del secolo scorso è caratterizzato da tre assunti: il primo riguarda la divisione tra Paesi a capitalismo avanzato che si pongono l’obiettivo della rivoluzione sociale e quelli che, a causa del loro ritardo sulla via dello sviluppo, non se lo pongono; il secondo, la “biforcazione” del marxismo in un percorso socialdemocratico e riformista ed uno rivoluzionario, totalmente dipendente dall’esperienza della Rivoluzione russa; il terzo riguarda la previsione dell’inevitabile collasso del capitalismo e della società borghese. Questi assunti e le relative implicazioni politiche, afferma Hobsbawm, esulano dal raggio del pensiero di Marx, per cui il marxismo del XXI secolo si basa su valutazioni postume e revisioniste dei suoi scritti.
In realtà, quello che Marx ha affermato non è che il capitalismo avesse raggiunto il limite della sua sopravvivenza, ma che il ritmo col quale procedeva nella sua espansione era caratterizzato di continuo da crisi di sovrapproduzione che si sarebbero dimostrate incompatibili con il suo modo proprio di funzionare; crisi che potevano essere rimosse solo con un’organizzazione socialista della società. Per questo motivo, afferma Hobsbawm, non deve sorprendere che il socialismo “fosse il fulcro dei dabattiti e delle valutazioni del XX secolo su Karl Marx”; non tanto perché il progetto di un’economia socialista fosse specificamente marxista, e in effetti non lo era, ma perché tutti i partiti progressisti d’ispirazione marxista e non condividevano questo progetto, mentre i Partiti comunisti affermavano l’avvenuta sua realizzazione all’interno della Russia post-rivoluzione.
Sennonché, il progetto socialista, cosi come è stato realizzato in URSS, è clamorosamente fallito nelle sue aspirazioni materiali verso la fine del secolo scorso; ma, a ben considerare, a questa affermazione di Hobsbawm si può anche aggiungere che il suo fallimento è stato anche di natura formale, manifestatosi ben molto tempo prima di quello di natura materiale. Infatti, inizialmente il capitalismo è stato in grado di superare l’”Età della catastrofe” compresa tra il 1914 e la fine degli anni Quaranta, in virtù del fatto che, come la visione marxiana prevedeva, nonostante la sua natura di sistema storicamente temporaneo dell’economia, era dotato di un modus operandi che lo vedeva costantemente in espansione all’interno di un libero mercato; ciò che gli consentiva, malgrado le crisi ed i costi sociali, di autotrasformarsi di continuo; successivamente, dopo il “Grande dibattito” degli anni Trenta sulla possibilità di effettuare il “calcolo economico” all’interno di un sistema sociale privato del mercato, a metà degli anni Cinquanta, Maurice Dobb, prestigioso economista marxista e militante comunista, ha “gettato la spugna”, riconoscendo la definitiva impossibilità, in assenza del mercato, di una razionale gestione dell’economia, dimostrando così che la teoria di un’economia socialista centralizzata, formalizzata dall’economista non socialista Enrico Barone all’inizio del secolo, altro non era che un “caso di studio” col quale, dal punto di vista organizzativo, non si poteva andare al di là delle aule universitarie.
Ma anche il progetto socialista socialdemocratico affermatosi nella seconda metà del secolo scorso ha avuto le sue difficoltà. La socialdemocrazia, “revisionando” il marxismo e optando per la “biforcazione” non rivoluzionaria, ha operato a livello politico col convincimento che compito del socialismo non fosse quello di nazionalizzare i mezzi di produzione, ma quello di assicurare un’equa distribuzione della ricchezza nazionale; obiettivo da raggiungere all’interno dei sistemi sociali dotati di un’organizzazione istituzionale democratica che, pur in presenza del libero mercato, avesse consentito di realizzare un’”economia mista” per governare le crisi e a garantire, attraverso le “pressioni dei Partiti socialisti”, l’equità distributiva. Ma, a partire dagli anni Settanta del XX secolo, l’enorme e accelerato progresso della globalizzazione, afferma Hobsbawm, ha ridotto il potere e la portata sociale dei Partiti socialdemocratici, mentre la rilevanza assunta dall’”integralismo di mercato” con la distruzione dell’economia mista ha generato un’estrema disuguaglianza economica tra tutti i Paesi integrati nell’economia mondiale e tra i diversi gruppi sociali all’interno di ognuno di essi; a ciò si è aggiunto, a partire dal 2008, la ricomparsa dell’elemento catastrofico del “ritmo ciclico basilare dell’economia capitalistica, inclusa quella che è diventata la crisi globale più seria dagli anni Trenta del Novecento”.
A fronte degli esiti catastrofici del modo proprio di funzionare del capitalismo mondiale, malgrado i fallimenti dei progetti socialisti, nella versione comunista e in quella socialdemocratica, “numerosi aspetti centrali dell’analisi di Marx – afferma Hobsbawm – rimangono validi e rilevanti”. Il primo di essi è espresso dalla necessità di riconoscere che la dinamica globale del capitalismo è sorretta, come Marx aveva evidenziato, dalla sua capacità di distruggere le eredità del passato, incluse quelle parti di esse da cui il capitalismo stesso ha tratto beneficio; il secondo aspetto è espresso dalla necessità di riconoscere che la logica interna della crescita capitalistica conduce a successive crisi di cambiamento attraverso una continua “distruzione creativa” di schumpeteriana memoria; infine, il terzo, per Hobsbawm, è espresso dalle parole del premio Nobel per l’economia, Sir John Hicks, secondo il quale la “maggior parte di coloro che desiderano far quadrare bene un percorso storico generale useranno le categorie marxiste o qualche versione modificata di esse, dal momento che le versioni alternative offrono ben poco”. Perciò, aggiunge Hobsbawm, anche se non è possibile prevedere le soluzioni dei problemi del mondo attuale, se si vuole avere una chance di successo bisogna formulare sulla natura dei problemi da risolvere le stesse domande che si è posto Marx, “rifiutando al contempo le risposte dei suoi vari discepoli”.
Perché, nella condizioni del mondo attuale, riemerge l’interesse a fare ritorno a un pensiero ottocentesco per criticare il capitalismo ed anche i suoi “sacerdoti”, gli economisti, che non hanno saputo prevedere quali sarebbero stati gli esiti di una globalizzazione delle economie nazionali unicamente sorretta dalla mano invisibile del mercato come invece aveva previsto Marx nel “Manifesto del Partito comunista” sin dal 1848? Perché a fronte della crisi attuale, risponde Hobsbawm, il mercato autoregolato non ha risposte, come non le ha avute alla vigila dell’”Età della catastrofe” di fronte agli esiti della grande crisi della fine degli anni Venti; il mercato regolato unicamente dalla mano invisibile riesce solo a far conseguire una crescita economica illimitata, a scapito però del fattore più debole della produzione, il lavoro, alimentando una crescete disoccupazione strutturale che nella fase attuale appare irreversibile. Il liberismo, il comunismo ed il socialismo socialdemocratico non hanno saputo, e continuano a non sapere, come fornire una risposta duratura alle diverse forme di una ricorrente disoccupazione; è ora, perciò, conclude Hobsbawm, di “prendere di nuovo Marx sul serio”.
In particolare, si può aggiungere, occorre prendere sul serio, nello studio dei fenomeni sociali in generale, ma soprattutto di quelli economici, il metodo istituzionalista, che Marx per primo ha proposto. Questo metodo d’analisi respinge l’idea che il sistema economico possa funzionare all’interno di un presunto stato di natura, perché le leggi che governano l’economia sono valide solo per una fase particolare dello sviluppo storico dell’intero sistema sociale ed economico; nel senso che il continuo sviluppo della produzione è alla base del cambiamento continuo dell’organizzazione del sistema sociale ed in particolare della sua organizzazione istituzionale. Man mano che la produzione si espande, si creano i presupposti perché un data organizzazione istituzionale, all’interno della quali la stessa produzione si svolge, divenga obsoleta, trasformandosi in un ostacolo al governo del funzionamento del sistema economico e, in generale, alla soluzione dei problemi sociali da esso originati. L’obsolescenza dell’organizzazione istituzionale pone la necessità della sua sostituzione attraverso la progettualità dei partiti politici; questi, allargando la considerazione del numero delle variabili sociali influenti sul funzionamento del sistema economico, come suggerito da Marx, devono promuovere un processo co-rivoluzionario, nel senso in cui l’ha inteso lo studioso marxista David Harvey in “L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza”.
Il processo co-rivoluzionario dovrebbe avere come obiettivo la creazione ordinata di una nuova forma di organizzazione sociale, nella quale la valorizzazione del capitale cessi di essere l’unico motivo ispiratore del governo del sistema sociale. A tal fine, l’obiettivo non può essere perseguito con la distruzione delle istituzioni sociali ed economiche plasmate dall’umanità per fare fronte ai propri stati di bisogno, ma attraverso la creazione di un nuovo ordinamento sociale ed economico. In tal modo, il riformismo politico cesserebbe di proporre continuamente “provvedimenti-tampone welfaristi”; il suo compito diverrebbe invece quello di governare un processo evolutivo del sistema sociale che risulti a misura delle aspirazioni di tutti, per permettere a ciascuno di conseguire, in condizioni di certezza e stabilità esistenziali, il proprio progetto di vita.
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