Può essere effettivamente vero che siamo al crepuscolo della democrazia rappresentativa “come l’abbiamo conosciuta”: fermo restando il divieto di mandato imperativo di cui all’articolo 67 della Costituzione (e di cui alla caterva di impegni internazionali ed europei, citati nell’interrogazione n. 4-01959 del senatore Buemi), è pur sempre argomentabile che il “nocciolo duro” di tale divieto sia statuito per i soli parlamenti e che potrebbe non estendersi alle altre assemblee elettive. A dispetto di Edmund Burke e dell’abate Sieyès, del resto, i due secoli di “democrazia dei moderni” sono stati attraversati da pulsioni ostili alla libertà di autodeterminazione dell’eletto: una sorta di recall fu introdotta anche alla Comune di Parigi e – come il titolare di una vicepresidenza parlamentare oggi ricorda sul Corriere della sera – in Portogallo la Costituzione contempla la decadenza dal seggio di chi abbandona il partito con cui fu eletto.

Quello che in questo scenario irrompe in modo eccentrico è il ricorso al diritto civile: il “patto tra privati” con cui il candidato si impegna a pagare/dimettersi in caso di violazione delle istruzioni di partito. Tralasciamo per un momento il fatto che il contratto ha un momento fisiologico ed uno patologico e che quest’ultimo dipende, alla fine, dalla decisione di un giudice. Soffermiamoci piuttosto sulle “istruzioni” che il codice interno ad un partito impone di non disattendere: solo l’iscrizione al gruppo consiliare? Anche il voto (quando non è benignamente accordata libertà di coscienza)? Nel caso di nomina nell’Esecutivo, anche l’esercizio delle funzioni amministrative?

Qui torna il problema del che accade se a decidere l’estensione (e la liceità) del patto tra privati interviene in sede contenziosa il giudice. Abbiamo già visto che le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti (a valle di minuziosissimi accertamenti della Guardia di finanza) sono occupate da mesi a discernere il grano dal loglio, nello scontriname dei consigli regionali. Qui avremmo i tribunali civili a decidere se l’articolo 97 della Costituzione inibisce, facoltizza o impone l’emanazione di un certo atto amministrativo: se cioè fare autostrade invece che ospedali sia legittima richiesta della “centrale” partitica al suo eletto – con conseguente legittima inflizione di una multa (ovvero la manleva di una fideiussione accesa al momento di essere candidato) – o se il principio di buona amministrazione comporti il bilanciamento degli interessi pubblici in gioco, secondo una valutazione discrezionale che è insindacabile dal magistrato.

L’alternativa, cioè, si sposta tra la decisione di “accendere il cervello”, quando si riveste un incarico di sindaco o di assessore, e quella di “eseguire il programma” (magari stilato dal notaio, come certi statuti di partito): con il giudice demiurgo che si barcamena tra mondo delle idee e mondo della realtà distribuendo patenti di legittimità ora all’uno, ora all’altro corno dell’eterna dicotomia platonica.

Proprio uno dei maggiori esponenti dell’accezione rousseauviana della democrazia, Lelio Basso, si esprimeva in modo contrario all’intervento giudiziale, nei rapporti tra il partito ed i propri iscritti; Costantino Mortati – che proveniva dalla culla del corporativismo fascista – ebbe ben presenti tutti i sottintesi delle concezioni organicistiche del partito politico, quando nel 1949 scrisse “Concetto e funzione dei partiti politici” (ripubblicato da Nomos 2-2015).

Certo, oggi si può ritenere che i sistemi ideologici conchiusi, dotati una connessione forte con le forze sociali di una certa contingenza storica,  fossero ossessionati dall’esigenza di coerenza interna oltre il dovuto: il principio di non contraddizione può essere utilmente abbandonato, quando si tratta di far squillare la tromba dell’animosità populistica. Si possono mettere insieme antiparlamentarismo e mozione sugli F15, scie chimiche e politometro, in un mosaico slabbrato con cui andare alla carica delle istituzioni rappresentative. Ed invocando una nuova versione plebiscitaria del Blut und Boden, il rigetto romantico della razionalità illuministica può trovare nuova linfa delle profezie della decrescita felice.

Quello che però avevano, le vecchie teorizzazioni di democrazia diretta o partecipativa, era un maggiore culto della sostenibilità complessiva del sistema istituzionale, di cui la polemica odierna non reca alcuna sia pur minima traccia. Se per due secoli democrazia diretta e democrazia rappresentativa ci hanno accompagnato come in un’alternanza tra sistole e diastole, forse è anche grazie a loro che l’apparato circolatorio della nostra forma di governo è ancora funzionante.