Una forza politica è un movimento che si riunisce attorno ad idee, principi e valori condivisi. Storie e percorsi comuni creano, in un secondo tempo, quel senso di appartenenza che consente a ciascun membro dell’aggregazione di identificare sé stesso in una causa più ampia. Da questo bagaglio ideologico e culturale che oseremmo definire novecentesco dovrebbe sorgere la progettualità di un soggetto politico, che può essere a sua volta generalista o di scopo: può cioè essere rivolta ad una visione d’insieme della società, o in alternativa può delinearsi in nome e per conto di una battaglia (si pensi ai movimenti referendari, alle associazioni anti-proibizioniste o alle liste per la tutela dell’ambiente).
Bene, la destra italiana ha coscientemente deciso di rinunciare a questo modo di concepire la sfera pubblica, di abiurare ad una simile forma mentis, assecondando piuttosto una pulsione recondita che da sempre alberga nel suo cuore: l’idea, niente affatto celata, di cedere sovente al fascino del personalismo, al fine di agevolare un processo di osmosi che spesso si crea tra alcuni spezzoni della società italiana sensibili al qualunquismo e figure carismatiche dotate di strumenti e modi convincenti.
Dietro l’idea, ormai conclamata, di rifondare Forza Italia vi è questa precisa scelta. L’estetica prima di tutto, il marketing come valore, la pubblicità come arte. Il Popolo delle Libertà ha rappresentato un mero tentativo, anomalo e mal riuscito, di dare smalto ad un progetto bipolare italiano, utile al più per una stagione. Un progetto di per sé pieno di insidie: pensiamo alla naturale vocazione proporzionalista del nostro paese e all’insieme di culture fortemente radicate all’interno di esso, da quella cattolica a quella socialista, senza dimenticare quella repubblicana, quella comunista o quella liberale di Croce e Malagodi. Tradizioni che non possono essere abbandonate per partito preso.
Al netto di ciò, l’establishment del Pdl si pose, anni addietro, il fine di unificare in un solo blocco le forze “conservatrici” dello Stivale, ospitando al suo interno gli esuli del craxismo ed i missini di Fiuggi, i post-popolari e i radicali disillusi. Un tentativo che avrebbe richiesto un processo di metabolizzazione ampio è stato affossato dalla smania di potere di un uomo: il legittimo proprietario del marchio, il leader capace di mettere in piedi una formidabile macchina da guerra dotata di un esorbitante numero di vassalli e servitori. Così il Cavaliere, unico vero collante di questa colorata composizione, ha retto come leader di governo e come capo dell’opposizione, tornando in sella, sia pur tra mille difficoltà, ogni qualvolta si riteneva finito il suo progetto politico.
In questi giorni Berlusconi sta sperimentando nuove possibilità, nuove geometrie. Sta cioè assaporando il piacere di essere al tempo stesso uomo di lotta e di governo, recuperando a suo modo una visione frontista del tutto estranea all’ambiente di Arcore: perno centrale di una maggioranza, osteggiata ed in suo ostaggio, nonché capo della fronda interna che alimenta spinte massimaliste in vista delle urne. Basta riflettere sui titoli dei principali quotidiani nelle ultime due settimane: si è parlato di Imu, di legge elettorale, di rimodellare le politiche di austerità comunitaria, perfino di presidenzialismo. Nulla è stato detto, invece, sull’evasione, sulla corruzione o sui conflitti d’interesse che pure affossano sistematicamente l’economia nazionale, alimentando l’illegalità dilagante.
Il governo Letta, in tale prospettiva, purtroppo non rappresenta una novità politica degna di nota, non costituisce l’incipit di un nuovo corso: è, semmai, la prosecuzione della seconda sciagurata Repubblica con altri mezzi, il tentativo disperato di realizzare un’operazione di maquillage politico per consentire ad un’intera classe dirigente di sopravvivere a sé stessa. Ne abbiamo davvero bisogno?
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