Oggi tende a prevalere l’immagine della tecnoscienza. Fra tecnologia e scienza, fra scienza “pura” o “di base” e scienza applicata i confini paiono più che mai sfumati, e la figura dello scienziato sembra quasi sovrapporsi a quella del tecnologo. Rita Levi Montalcini, invece, pur affezionatissima alla propria identità di medico (e la medicina, si sa, è soprattutto un’ “applicazione” del sapere scientifico), ci propone un’idea di scienza più legata, poniamo, alla filosofia o alla cultura tout-court.
La scoperta dell’NGF, il Fattore di Crescita delle cellule nervose, ha, come noto, un valore straordinario, anche simbolico. Fin dalle scuole elementari ci hanno insegnato che i neuroni sono cellule perenni: quando muoiono non vengono sostituiti da altri. Altrettanto nota, d’altro canto, è la plasticità del sistema nervoso, persino in età avanzata. Ecco: quel fattore di crescita contribuisce a offrirci un modello del cervello più adeguato alla sua complessità.
E nell’Elogio dell’imperfezione scritto dalla Professoressa, quasi un’eco del “legno storto” di Kant, ella in fondo si chiede: come possiamo pretendere che il nostro comportamento, il quale a suo modo rappresenta una sorta di proiezione del nostro corpo e del nostro cervello (per non parlare della mente), sia perfetto, quando ad esempio l’encefalo stesso non lo è?
Levi Montalcini, così, riesce a condensare tanti aspetti del nostro tempo. Prima di altri intuì che il futuro della medicina e della ricerca scientifica in generale sarebbe stato quasi incarnato dalle neuroscienze. E oggi, come “ricaduta” sociale e culturale proprio della frontiera più avanzata di quel ramo del sapere, si sviluppano studi di “neuroetica” e persino di “neuroeconomia”. Ella, poi, è anche un’icona della presa di coscienza delle donne, riuscendo per giunta a porsi oltre certe dicotomie, tra le quali quella fra emancipazione e liberazione. Ed è stata in grado di superare l’ossessione che ci è propria di concepire l’esistenza come rigidamente suddivisa (e intrappolata) in “compartimenti-stagno”: il lavoro, gli affetti, il tempo libero e così via. I vecchi manuali di psichiatria, del resto, proponevano sì la tradizionale distinzione fra le sfere cognitiva, affettiva e volitiva, ma ci avvertivano della loro almeno parziale sovrapposizione. Così, ad esempio, tutti ricordano l’attenzione e la profonda sensibilità della studiosa per le vicende di vita dei propri collaboratori.
Ed ella portava il segno del Novecento anche per aver subito l’odio razziale, una follia di vecchia data che paradossalmente ha raggiunto appunto nel secolo scorso un grado di perversione senza precedenti. E che dire dell’impegno per la libertà coniugata con la giustizia, più attuale che mai? Sì, perché quella era l’idea di sinistra della Professoressa e della Senatrice.
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