Tra i molti commenti seguiti alle dimissioni di Benedetto XVI dal soglio pontificio, in alcuni si è evocato il precedente storico di papa Celestino V.
Secondo un’esegesi diffusa, nel III canto dell’Inferno dedicato alle anime degli ignavi, coloro “che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”, Dante colloca Celestino V: “vidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto”. Ma nel 1342 Francesco Petrarca, nel De vita solitaria scrisse con ammirazione sulla scelta di Celestino V, compiuta in coerenza con la sua vita di eremita che rifuggiva dalla corruzione del mondo e della Chiesa. E secondo alcune analisi basate sulla storia “segreta”, le dimissioni di Celestino V sarebbe da mettere in relazione ad un presunto rapporto con l’Ordine dei Cavalieri templari, risalente ad un incontro precedente alla sua ascesa al soglio di Pietro con il Gran Maestro del Tempio Guillaime de Beaujeu, durante il Concilio di Lione, che vide coinvolte le massime figure della cristianità dell’epoca. In quell’occasione, sempre che l’incontro sia davvero avvenuto, i Templari avrebbero fornito a Pietro Angelerio da Morrone (il nome di Celestino V prima dell’elezione a papa) i finanziamenti per costruire la Basilica di Collemaggio a L’Aquila.
Ma quella di Celestino V non fu la prima delle rinunce al papato, siano esse storicamente accertate o meno. Già per figure di papi che sfumano nella leggenda come Clemente I, Ciriaco e Marcellino si parlò di rinuncia; seguono poi i casi di Ponziano, Cornelio e Liberio; ancora si parlò di dimissioni o di deposizione per Martino I, Benedetto V e Giovanni XVIII, fino ad arrivare alle rinunce di Benedetto IX, Gregorio VI, Pasquale II e Celestino III.
Nel XII secolo i giuristi si posero il problema dell’ammissibilità della rinuncia al papato, cercando di distinguere le eventuali cause legittime da quelle inammissibili e ponendosi altresì il problema dell’inesistenza di un superiore gerarchico nelle cui mani il papa in carica potesse rassegnare le dimissioni. Il giurista Baziano sostiene che la rinuncia è ammissibile solo in due casi: nel desiderio di dedicarsi esclusivamente alla vita contemplativa e nel caso di impedimenti fisici dovuti a malattia e a vecchiaia. A sua volta il canonista Uguccione da Pisa confermava le osservazioni di Baziano precisando che la rinuncia non doveva comunque danneggiare la Chiesa e doveva essere pronunciata di fronte ai cardinali o a un concilio di vescovi.
Le decretali di Gregorio IX, pubblicate nel Liber Extra del 1234 inoltre, precisavano altre cause di rinuncia: oltre alla debilitazione fisica, veniva rintracciata l’inadeguatezza del papa per defectus scientiae, nell’aver commesso delitti, nell’aver dato scandalo (quem mala plebs odit, dans scandala cedere possit ) e nell’irregolarità della sua elezione, ma si escludeva quale legittimo motivo di rinuncia il desiderio di condurre una vita religiosa, il cosiddetto zelum melioris vitae, già ritenuto ammissibile dai canonisti.
Le dimissioni di Benedetto XVI, oltre ad alimentare il dibattito sui precedenti storici e sui profili giuridici, hanno stimolato il richiamo ad elementi millenaristici. L’ovvio riferimento è ad una profezia che ricorre sempre “a ogni morte di papa”, quella attribuita a San Malachia: un elenco di 112 motti che sarebbero attribuibili ad altrettanti pontefici a partire da Celestino II. Benedetto XVI era il 111°. Il prossimo, quindi, sarebbe anche l’ultimo della lista, Pietro Romano. Dopo, più niente: nell’interpretazione millenaristica della lista, il prossimo pontefice sarebbe quindi l’ultimo prima del secondo ritorno di Cristo e della successiva fine del mondo. Sembra, però, che in realtà le profezie sarebbero state redatte dal falsario umbro Alfonso Ceccarelli, allo scopo di influenzare i cardinali che prendevano parte al Conclave del 1590 o, secondo altri, da Nostradamus.
Ma a parte i riferimenti storici e i richiami millenaristici, al netto delle tesi “complottiste” alla Dan Brown, quali potranno essere le conseguenze sulla linea della Chiesa cattolica, dopo le dimissioni di Benedetto XVI? Si può ipotizzare un diverso dialogo con le altre confessioni cristiane ed una maggiore capacità di comprendere i temi della modernità e della stessa visione laica del divenire, in questa vicenda infatti, trovano conferma le ragioni di Blaise Pascal: “Noi navighiamo in un vasto mare, sempre incerti e instabili, sballottati da un capo all’altro. Qualunque scoglio, a cui pensiamo di attaccarci e restar saldi, vien meno e ci abbandona e, se l’inseguiamo, sguscia alla nostra presa, ci scivola di mano e fugge in una fuga eterna. Per noi nulla si ferma. (Pensieri, 72)”.