Non ero favorevole all’intervento in Iraq, e tutto sommato Tony Blair non mi è neanche tanto simpatico. Sono però allibito di fronte alle conclusioni della Commissione Chilcot (così come, del resto, fui allibito per la sua istituzione). Non mi turba la character assassination riservata al fondatore del New Labour (ho visto di peggio nei confronti di leader a me più vicini). Mi turba l’idea che la politica e la democrazia possano essere oggetto di inchieste paragiudiziarie, e che addirittura ci sia chi prepara una class action contro l’inquilino di Downing Street di tredici anni fa.
Alzi la mano chi, allora, ha creduto all’esistenza di armi di distruzione di massa, o comunque ha basato su questa ipotesi le proprie scelte. E si faccia avanti anche chi ha dimenticato, per esempio, l’affannato giro delle capitali europee con cui Tareq Aziz tentò di scongiurare l’intervento; l’eco non solo italiana che ebbe la proposta di Marco Pannella per l’esilio di Saddam; i ripetuti interventi di Giovanni Paolo II. Chi ha dimenticato insomma che allora si sviluppò un dibattito pubblico di cui non si ha memoria in circostanze analoghe.
Tutto si può dire dell’intervento in Iraq, quindi, tranne che sia stato deciso nelle segrete stanze o addirittura con una “lettera d’amore” di Blair a Bush. Fu invece un errore commesso alla luce del sole, con tanto di delibere parlamentari, di dotte disquisizioni sul diritto al first strike, e di enfatici atti di fede nel dovere di “esportare la democrazia”. Poi le cose sono andate male, ed è giusto che chi ha sbagliato venga sanzionato (come peraltro già lo sono stati sia Blair che Bush). Ma un errore politico non è un reato, e la sanzione spetta al voto popolare, non ad una giuria tirata a sorte. Tanto più quando si tratta di giudicare l’opportunità di promuovere una guerra.
Una guerra, infatti, al di là delle ipocrisie del diritto internazionale, è sempre una violazione della legalità ordinaria, posto che a fondamento della convivenza civile c’è il divieto sia di uccidere che di obbligare ad uccidere. Perciò, del resto, promuovere una guerra è l’atto politico per eccellenza. E non solo perché la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, come sanno tutti queli che hanno letto un Clausewitz di seconda mano. Perché al di fuori delle regole della politica una guerra non sarebbe neanche concepibile, non solo giudicabile.
Perciò si tratta di una tremenda responsabilità che inevitabilmente deve gravare sulle élites: e la coincidenza della pubblicazione del rapporto Chilcot con la fuga delle élites che hanno provocato la Brexit non dice niente di buono sul futuro della politica democratica.
Non sono d’accordo con la tua posizione: l’inchiesta di cui è stato oggetto Blair non è stata un’inchiesta paragiudiziale ma un’inchiesta politica e ha dato luogo a un giudizio politico.. Che poi
altri vogliano portare Blair in processi penali è un’altra storia e non riguarda l’inchiesta ma il suo sfruttamento più che discutibile. Blair ha mentito pubblicamente per giustificare scelte politiche adducendo
fatti non verificati e non probabili, soprattutto sapendo che non poteva in nessun modo provarli. E il giudizio su di lui è e deve restare un giudizio politico, sulla sua politica estera. E’ ovvio che questo suo gravissimo errore è destinato a indebolirne anche l’eredità nel campo della politica interna.
Al contrario di Capogrossi invece sono pienamente d’accordo con le osservazioni di Covatta. E diffonderò il più possibile il suo post sui socialnetwork, nella speranza, spero non vana, che suoni la sveglia a troppi dormienti.
@Luigi Capogrossi
Il problema è che per Blair non si sta parlando di un normale processo penale, ma di un processo politico. E per “processo politico” non intendo un semplice dibattito pubblico, ma un processo vero e proprio, con possibili conseguenze penali, in cui l’istituzione giudiziaria competente è il Parlamento.
È poco noto, ma il Parlamento britannico mantiene ancora oggi, almeno in teoria, amplissimi poteri giudiziari. Ogni suddito britannico può essere incriminato dalla Camera dei Comuni per qualunque grave ragione — non necessariamente l’espressa violazione di una legge — e giudicato dalla Camera dei Lord. Cito dal sito istituzionale:
Impeachment is when a peer or commoner is accused of ‘high crimes and misdemeanours, beyond the reach of the law or which no other authority in the state will prosecute.’ It is a procedure that is ‘directed in particular against Ministers of the Crown’. The first recorded impeachment was in 1376 and the last in 1806. This procedure is considered obsolete.
Se suona come una procedura illiberale, è perché lo è. Ed è giusto indignarsi per il fatto che qualcuno l’abbia anche soltanto ipotizzata.
Mi pare che l’obiezione di Capogrossi sia centrata. In effetti la questione era se Blair avesse mentito agli inglesi, ed era una questione da accertare certo in modo il più possibile imparziale, ma che era ed è rimasta una questione politica. Non vedo perciò in questa vicenda l’ennesimo capitolo di una impropria giurisdizionalizzazione della politica, che tuttavia c’è ed è molto preoccupante in Italia come altrove.
Un giudizio “politico” è quello che si esprime tempestivamente, in medias res: per esempio quello che avrebbe potuto esprimere tredici anni fa Gordon Brown, che allora era (e rimase) Cancelliere dello Scacchiere. Tredici anni dopo si può esprimere solo un giudizio storico, che, come Capogrossi m’insegna, di regola non è materia per commissioni d’inchiesta. Anche se, come ricorda Pinelli, la Commissione Clichot non aveva poteri giurisdizionali: ci mancherebbe altro.
Il giudizio potra’anche essere politico ma il metodo e’paragiudiziario. E non va.
Condivido pienamente il giudizio di Pecci. Aggiungendo che prima venne la scelta politica poi la ricerca delle “prove”che la giustificassero; prove che non furono mai trovate. In questo senso Blair mentì alla pubblica opinione e forse anche a sè stesso. Ciò detto portarlo in giudizio mi pare un abominio; ma questo è un altro discorso.
L’alternativa inchiesta politica o inchiesta giudiziaria risente un po’ dei degenerati canoni nostrani, e sono daccordo coll’auspicio del Direttore che la politica britannica non scada nelle peggiori conseguenze del malfrancese (e di conseguenza italico). Ma Chilcot è sia l’espressione che il vendicatore dell’establishment violato dagli spin doctors blairiani: da un mandarino di Whitehall non poteva che arrivare la (postuma) rampogna dei burosauri, secondo cui coartare gli autori di memo amministrativi prima o poi si paga. Se il Foreign office o il Lord Cancelliere firmano un’interpretazione dell’articolo 51 della Carta ONU, non è più questikne di diritto internazionale, ma di delicati equilibri interni al Gabinetto. Blair da politico avveduto avrebbe dovuto accorgersene, invece di farsi trascinare dall’ansia di “sex-up” le notizie sul supercannone. Non averlo fatto lo condanna ad un giudizio storico un po’ meno lusinghiero del suo successo politico; questo proprio mentre il suo “gemello diverso” Gordon Brown si staglia nel giudizio storico come un gigante, malgrado il (o forse proprio in ragione del) suo insuccesso politico.
Neanche in Italia mancano i mandarini che vogliono vedicarsi degli spin doctors innovativi. Quanto a Gordon Brown, non direi che si stagli. Non riesce nemmeno ad arbitrare il conflitto fra Corbyn e i parlamentari laburisti.Non c’è dibbio, infine, che le scelte sulla guerra irachena condizionino il giudizio storico su Blair: ma non c’era bisogno di Chilcot per rendersene conto. La verità è che questa vicenda è la degna conclusione di un percorso che ha portato prima alla Brexit, poi alla fuga dei responsabili della medesima: un percorso che ha visto l’abdicazione di un ceto politico che non potrà mai essere giudicato per le sue scelte per il semplice motivo che di scelte non ne ha mai fatte.