L’economia italiana è in declino. Si tratta di un trend che non ha cause recenti, nel senso che non inizia dalla crisi nel 2008 dei mercati immobiliari americani, o da quella più recente dei conti pubblici nazionali; le sue origini sono invece più remote e profonde che possono essere rinvenute all’inizio della seconda metà del secolo scorso. In un suo recente articolo apparso sul n. 3/2013 di Economia Italiana (“Una crisi lunga mezzo secolo: le cause profonde del declino italiano”), pubblicazione trimestrale a cura di UniCredit, Marcello De Cecco individua l’inizio del declino nella crisi che l’economia italiana ha vissuto negli anni Sessanta, con la sostituzione di Donato Menichella con Guido Carli nel governatorato della Banca d’Italia. Il declino, per De Cecco, è comprovato dall’andamento del PIL pro-capite degli ultimi vent’anni: a partire dai primi anni Novanta, esso ha infatti perso continuamente terreno nei confronti di quello dei principali partner europei; mentre fondate previsioni attuali non lasciano spazio, per l’immediato futuro, a possibili inversioni di tendenza.
Alla fine degli anni Cinquanta, con la creazione del Mercato Comune, l’incremento dell’interscambio tra i Paesi aderenti ha avuto profondi effetti sulla politica monetaria e fiscale dell’Italia. In corrispondenza della situazione creatasi nel Paese, su “richiesta della Fiat” e degli altri operatori legati alla “filiera” automobili-autostrade-petrolio (cui, in vero, andrebbero aggiunte le assicurazioni, legate allo sviluppo della motorizzazione), nel 1960 è stato dato “il ben servito” a Menichella, che De Cecco considera il miglior banchiere centrale che l’Italia abbia mai avuto e che ha saputo governare il “miracolo economico” degli anni Cinquanta in presenza di una sostanziale stabilità monetaria, consentendo alla moneta nazionale di meritare nel 1960 l’”Oscar delle Monete” che il Financial Time assegnava ogni anno. Menichella, attraverso un severo controllo del sistema bancario, quasi interamente di proprietà pubblica, ha saputo assicurare al Paese la politica monetaria della quale esso aveva bisogno, conservando lo svolgimento del “miracolo” entro i binari della stabilità. Carli, succeduto a Menichella e rimasto governatore per i successivi sedici anni, è stato portatore di un’“eccessiva identificazione col padronato delle grandi imprese” e, al contrario del suo predecessore, è stato assai meno disposto a salvaguardare la stabilità monetaria, nel senso che è sempre risultato disponibile a garantire un trade-off (uno scambio compensativo) tra stabilità e inflazione, pur di favorire l’espansione della base produttiva mediante prestiti alle imprese per investimenti in capitale fisso e impianti.
La politica creditizia da lui inaugurata, quella dello “stop and go”, caratterizzata dal susseguirsi, a seconda della congiuntura, di fasi restrittive a fasi espansive del credito, ha avuto l’effetto, a partire dal 1963, di fare “stragi di imprenditori coraggiosi e temerari, che avevano ampliato gli impianti e innovato i macchinari”, concorrendo a interrompere quel “boom” che Menichella, afferma De Cecco, avrebbe interrotto molto prima, mentre Carli ha lasciato che continuasse, per consentire all’Italia di dotarsi di una struttura industriale moderna al pari di quella dei due Paesi comunitari economicamente più avanzati: Germania e Francia. Il trentennio di cambi fluttuanti, seguito alla dichiarazione dell’inconvertibilità del dollaro nel 1971, ha assicurato pro-tempore all’Italia la capacità competitiva sui mercati internazionali, necessaria a reggere la concorrenza di Germania e Francia. Ma la debolezza della lira, su cui l’Italia ha fondato la propria forza competitiva, ha provocato una profonda ristrutturazione degli equilibri produttivi del Paese, favorendo la diffusione, soprattutto nelle regioni del Nord-Est ed in quelle centrali dell’Italia, di piccole e medie imprese, le quali, in quanto caratterizzate da combinazioni produttive ad alta intensità di lavoro ed a bassa tecnologia, hanno “incastrato” la base produttiva nazionale all’interno di un sistema di specializzazioni produttive internazionali cui è da imputarsi l’allontanamento del Paese dai suoi partner comunitari capitalisticamente più dotati.
Parallelamente alla ristrutturazione degli equilibri produttivi, gli investimenti, i salari ed i livelli occupazionali all’interno del Paese hanno proceduto con un andamento assai più contenuto rispetto al passato, mentre la base produttiva si è progressivamente indebolita, a seguito del ridimensionamento della grande impresa, della riduzione del tasso di modernizzazione, del contenimento dello sviluppo dell’istruzione, della formazione, della qualità della forza lavoro e della comparsa di attività innovative.
La decadenza dell’economia italiana nei decenni più recenti non è quindi dovuta, secondo De Cecco, a politiche pubbliche sbagliate su come sono stati affrontati gli esiti del processo di globalizzazione delle economie nazionali. L’adozione della moneta unica europea ha interrotto la prassi, progressivamente sperimentata dopo la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro, di ricorrere alla svalutazione della moneta nazionale, al fine di consentire alle imprese di reggere alla concorrenza sui mercati internazionali. In conseguenza di ciò, venuta meno la possibilità di “esternalizzare” le difficoltà interne sui Paesi esteri, l’unica via percorribile è stata quella di realizzare la tutela della base produttiva entro i confini nazionali, a “carico” dei prezzi e dei salari interni. L’unico aspetto internazionale ha riguardato la proprietà dei titoli di Stato, nel senso che gli investitori esteri hanno potuto acquistare liberamente parti cospicue dei debiti pubblici nazionali e altrettanto liberamente hanno potuto rivenderle quando fosse risultato loro conveniente o prudenziale. E’ accaduto così che, a fasi di accumulo seguissero impreviste smobilizzazioni, con gravi conseguenze, per la mancanza di una politica fiscale comune da parte dei Paesi comunitari, sui conti pubblici nazionali, il cui disavanzo complessivo raggiungeva livelli insostenibili, non più giustificati dai mercati finanziari esteri.
In questo contesto, il sopraggiungere della crisi del 2007 ha colpito l’Italia più degli altri principali Paesi europei che avevano adottato la moneta unica. Diversi sono stati comunque gli effetti sul sistema del credito: la differenza è consistita nel fatto che le banche italiane, mentre sono state solo parzialmente coinvolte nelle bolle finanziarie scatenatesi negli USA, sono risultate invece eccessivamente esposte sull’estero, per aver preso a prestito sui mercati internazionali risorse a breve, al fine di coprire lo squilibrio strutturale dei loro conti, originato dall’eccessivo credito concesso alle imprese negli anni precedenti la crisi; quando questa è esplosa, le banche sono risultate esposte, non solo alla difficoltà di trovare nuovi finanziamenti, ma anche agli effetti della propensione dei creditori internazionali a ricuperare in tempi brevi i fondi prestati. E’ questo il motivo per cui l’Italia si è trovata inaspettatamente e improvvisamente annoverata tra i paesi poco virtuosi” e declassata tra i Paesi a rischio di “fallimento”.
In questa nuova svolta, De Cecco rinviene l’ultima delle cause che sono all’origine del declino dell’economia italiana. Le autorità nazionali, anziché aiutare le banche a ricapitalizzarsi, per fare fronte alle conseguenze del loro eccessivo indebitamento estero, le hanno invece aiutate perché potessero proseguire le loro attività tradizionali di prestito alle imprese, in un momento in cui queste ultime presentavano un’alta domanda di credito a basso costo. In tal modo, le autorità italiane non hanno potuto utilizzare le risorse pubbliche, come hanno fatto gli altri Paesi europei più virtuosi, per il rilancio della domanda interna, la cui caduta si è presto allineata alla caduta delle esportazioni e delle importazioni: la contrazione di queste macro-grandezze ha approfondito ulteriormente la separazione dell’economia italiana da quella dei principali Paesi dell’Eurozona. L’Italia, quindi, nonostante le buone intenzioni del “governo dei professori”, conclude De Cecco, è venuta a trovarsi al centro, senza esserne causa (se non pro-quota), di una catena di eventi che hanno attivato un “pericoloso circolo vizioso” che ha alimentato la spinta della base produttiva del Paese verso il declino, a causa della debolezza strutturale degli investimenti, dell’aumento della pressione fiscale e della contrazione del livello della spesa pubblica.
Analisi severa, quella di De Cecco, riguardo al trend dell’evoluzione dell’economia italiana, che, nei 150 anni di storia unitaria, ha conosciuto una “modernizzazione fortemente voluta e in buona parte realizzata”; si è trattato però di un risultato fragile, che il Paese ha mostrato di non poter conservare e tanto meno migliorare. Stupisce, tuttavia, che un fine conoscitore della storia delle dinamiche monetarie e finanziarie nazionali, quale De Cecco è, abbia “ovattato”, sotto il “velo” di una narrazione formalmente ineccepibile, le cause del declino dell’economia italiana, mancando di includere tra queste soprattutto il processo di privatizzazione dei beni dello Stato, con la conseguente distruzione dell’economia mista, a vantaggio di operatori che sono risultati essere per lo più i controllori delle grandi imprese in crisi; queste, infatti, hanno avuto, col placet delle autorità governative nel ventennio tra il 1990 ed il 2010 e con la disponibilità del sistema bancario nazionale, la possibilità di compiere le “scalate”, non per approfondire e ammodernare capitalisticamente la base produttiva del Paese, ma solo per allargare la loro base patrimoniale.
Tutte le operazioni che sottostanno al processo di privatizzazione valgono ad inverare quanto De Cecco, in apertura del suo articolo, espone riguardo alla “crisi del Seicento”, sperimentata dal nostro Paese nel corso della sua storia millenaria. Se è vero che allora le regioni italiane sono state vittime di un modello di produzione artigianale a causa dell’inadeguatezza dei micro-Stati italiani ad affrontare i problemi della globalizzazione originata dalle scoperte geografiche e per le eccessive dimensioni raggiunte dal settore finanziario rispetto a quello reale; è altrettanto vero, però, che negli anni recenti, come allora, l’imprenditorialità finanziaria ha privilegiato in Italia le rimunerazioni da servizi resi alle imprese, anziché quelle derivanti dalle linee di credito concesse per il finanziamento di investimenti produttivi. D’altro canto, l’imprenditorialità reale ha privilegiato le rimunerazioni da rendite patrimoniali, anziché da profitti, assumendo così un carattere parassitario. Da questa imprenditorialità, sia finanziaria che reale, non c’è certo da attendersi un qualche tentativo di contribuire a porre rimedio al declino del Paese. Perché De Cecco ha mancato di denunciare questo aspetto? Considerando che è UniCredit l’editore della rivista su cui è comparso l’articolo qui commentato, si può solo pensare, malignando, che a chi è “ospite” del proprio “padrone” accada, sia pure a livello di subconscio, di avvertire l’esigenza di non risultare a quest’ultimo poco gradevole.