Jürgen Habermas è forse l’unico filosofo europeo che da sempre è stato un sostenitore del definitivo compimento dell’unificazione politica dell’Europa; a dimostrarne l’impegno sta il recente libro, “Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea”, che raccoglie un insieme di saggi scritti in occasioni diverse, tutti orientati a sottolineare l’urgenza dell’atto unificatore finale.
Le ragioni avanzate da Habermas riguardo a quest’ultimo atto investono direttamente sia l’interesse del suo paese che quello dei restanti Stati membri dell’Ue, e sono tutte indistintamente suggerite dalla necessità di affrontare una drammatica alternativa: gli Stati o abbandonano l’euro, rinunciando anche a realizzare il progetto dell’Unione europea, oppure approfondiscono l’unione politica “in maniera tale da dare legittimità democratica, oltrepassando le frontiere, ai trasferimenti di valuta e alla messa in comune dei debiti”.
Non è possibile, sottolinea Habermas, evitare la prima alternativa senza realizzare la seconda. Innanzitutto esiste una ragione a favore dell’unione politica dell’Europa che investe direttamente la Germania; questa, infatti, non dovrebbe mai dimenticare che l’adesione al progetto europeo della Bundesrepublik è stata suggerita, all’origine, al fine di “riguadagnare una reputazione internazionale compromessa per responsabilità propria”. Oggi questa ragione prudenziale è affievolita dagli esiti della crisi economica che ha colpito in modo diverso i singoli Stati, per cui il “ruolo guida” esercitato dalla Germania per via del suo maggior “peso” demografico ed economico rispetto agli altri Stati, anziché affievolirne le conseguenze, “risveglia vecchi fantasmi storici nei paesi vicini” A questa situazione occorre che la Germania risponda con una politica che sia orientata, non già a realizzare una germanizzazione dell’Europa, ma ad assicurare una “Germania in Europa”.
Una seconda ragione per approfondire l’integrazione politica dipende dal cambiamento intervenuto nel rapporto tra politica e mercato, rapporto che si era affermato in tutti i paesi europei a partire dal dopoguerra e che, dopo l’esautoramento neoliberale della politica, ha prodotto e continua a produrre effetti destabilizzanti. Per alcuni decenni la politica è stata l’unico strumento che i cittadini hanno avuto a disposizione per agire collettivamente e intenzionalmente sulle condizioni d’esistenza della loro comunità; in tal modo è stato possibile coniugare la democratica partecipazione al processo decisionale pubblico per il governo di una stabile vita sociale ed economica, con la tutela della libertà del mercato. Ma a seguito dei cambiamenti indotti dal neoliberismo, i mercati, dopo aver assunto un ruolo preminente, hanno assoggettato la politica ai propri imperativi ed originato disuguaglianze sociali ed instabilità economica. Questa situazione potrà essere rovesciata solo se la politica riacquisterà il suo ruolo originario a livello europeo.
Un’altra ragione che impone l’urgenza dell’integrazione politica degli Stati europei riguarda le modalità di attuazione della politica monetaria. Gli Stati membri dell’eurozona, non avendo trasferito a livello comunitario le competenze nazionali, subiscono gli esiti negativi del mancato governo unitario cui dovrebbe essere sottoposta una moneta comune. Gli Stati membri, infatti, pur continuando ad essere indipendenti nelle politiche di bilancio, non lo sono nella politica monetaria, per cui non possono disporre dei necessari meccanismi di riequilibrio di eventuali disavanzi nei loro conti esteri. Da ciò consegue che quanto “più disomogenee sono le diverse economie, e quanto più differenziate nei loro livelli di competitività, tanto più necessari si fanno altri meccanismi di riequilibrio” fondati sulla mobilità transfrontaliera dei surplus valutari. Sennonché le competenze politiche sulle decisioni implicanti effetti ridistributivi sono concentrate su un organo istituzionale, il Consiglio d’Europa, il quale non decide sulla base di interessi generalizzati a livello di intera Europa, ma sulla base di una volontà politica sminuita dagli egoismi nazionali.
Oltre a queste ragioni Habermas ne aggiunge molte altre, tra le quali quella che maggiormente risalta per importanza sottolinea che i processi decisionali comunitari incrementerebbero anche l’efficienza, in quanto consentirebbero di superare il particolarismo degli Stati nazionali di fronte ai mutamenti che sono intervenuti nella conduzione della politica mondiale. Se gli Stati europei non riconosceranno la necessità di “capitalizzare” tutti i vantaggi sinergici che possono derivare da un approfondimento della loro unione politica, correranno il rischio di vedere compromessi il loro modello di Stato sociale e la varietà nazionale delle proprie culture: rinunciare all’unificazione politica dell’Europa significherebbe perciò “prendere congedo dalla storia mondiale”, in quanto gli Stati europei disuniti mancheranno di influenzare “l’agenda delle politica mondiale e la soluzione dei problemi globali”.
La disunione politica, di fronte all’integrazione delle economie nazionali nel mercato mondiale, avrà in particolare l’effetto negativo di indebolire il fondamento dello Stato sociale realizzato, espresso dalla solidarietà. Il concetto di questa è nato con la Rivoluzione francese, ma si è interiorizzato nella coscienza collettiva soltanto attraverso la dinamica della lotta di classe affermatasi nel corso del XIX secolo; questa dinamica, però, si è istituzionalizzata solo nel quadro degli Stati nazionali, la cui struttura è oggi, a causa della globalizzazione, compromessa dall’allargamento e dall’approfondimento delle interdipendenze tra le diverse economie, al punto da rendere del tutto ininfluenti il ruolo e la funzione delle vecchie frontiere nazionali.
Le conseguenze della crescita delle interdipendenze e della vanificazione delle frontiere nazionali a causa di “un capitalismo politicamente ingovernato, spinto avanti dallo scatenamento dei mercati finanziari”, generano oggi tensioni tra gli Stati dell’eurozona. Per attenuare tali tensioni occorre che le interdipendenze siano governate da una completa integrazione politica degli Stati membri dell’Ue, da realizzarsi attraverso uno sforzo cooperativo condiviso che incrementi crescita e competitività dell’intera Unione; uno sforzo di questo tipo non potrà evitare alla Germania il dovere di farsi carico dei necessari effetti ridistributivi, giustificati sulla base di un concetto di solidarietà che tenga conto dei mutamenti occorsi a livello mondiale con l’affermarsi della globalizzazione.
L’arringa di Habermas è totalmente condivisibile. Un aspetto però pare trattato in maniera insufficiente: la questione della natura della struttura istituzionale che dovrà fungere da “contenitore” della futura unione politica degli Stati europei. Non basta indicare miglioramenti incrementali delle istituzioni vigenti; se si vorranno salvare le diversità culturali, verso le quali Habermas mostra d’essere particolarmente sensibile, e che sono – se non in modo esclusivo – almeno in parte all’origine del rallentamento del processo di unificazione politica, quest’ultima è destinata a “segnare il passo” forse ancora per molto tempo. I miglioramenti incrementali potranno valere per l’assunzione di decisioni ridistributive più responsabili e per più funzionali trasferimenti valutari; ma i paesi europei dovranno anche adottare politiche sociali finalizzate, se non proprio ad eliminare, quantomeno a rendere tra loro compatibili gli atteggiamenti ed i comportamenti dei cittadini rispetto soprattutto al presidio dei loro diritti acquisiti, concretizzatosi nello Stato sociale realizzato, il cui costo di “mantenimento” pesa non poco sulla stabilità di funzionamento delle singole economie.
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