Un po’ per caso mi trovo a rileggere l’intervento di Elena Bein Ricco nel libro La sfida di Babele (Claudiana, 2001), da lei curato, e quello di Salvatore Veca sull’ultimo numero di Quaderni Laici (Claudiana, 2012). La prima si pone il problema di un nuovo modello, inclusivo, di laicità volto a conciliare il carattere variegato e plurale delle nostre società con i diritti universali di cittadinanza. “La soluzione suggerita da Rawls è (…) è quella della ‘scommessa’ in positivo che le diverse concezioni possano, ‘malgrado la loro reciproca opposizione’, contribuire alla ‘fondazione in comune dei valori propri di una democrazia equa e capace di durare’. Perché ciò accada, è necessario che le ragioni del dissenso siano esplicitate pubblicamente in un confronto serrato, per verificare se, al di là dei contrasti, sia possibile rintracciare una convergenza su quale ordinamento istituzionale debba assumere la società politica”. E, sembra aggiungere Walzer, “l’unica, fondamentale regola da rispettare è quella di non pretendere di elevare a norma universale la propria particolare posizione”.
La questione che si pone Veca è, almeno in prima battuta, un’altra: “è possibile estendere i principi di giustizia dal versante interno della costellazione nazionale all’arena della costellazione postnazionale?”. Insomma: quale giustizia nel villaggio globale? E il pensatore scorge un po’ di luce nelle proposte di Amartya Sen. Non possiamo limitarci a considerare ciò che le persone hanno. “Quello che è importante è sapere come le persone stanno in virtù del variabile tasso di conversione dei loro beni in funzionamenti”. E “il variare del tasso di conversione dipende dal fatto della diversità umana. Dipende dai diversi modi di essere diversi degli esseri umani”. E il “funzionamento”, per inciso, è un concetto dal quale la psico(pato)logia attinge sempre più: come ci poniamo? Cosa facciamo nella e della nostra esistenza?
Tuttavia, continua Veca rifacendosi a Sen, “il riferimento ai funzionamenti non basta. Dobbiamo introdurre la nozione di capacità delle persone, intese come variabili gradi di libertà delle persone di scegliere tra funzionamenti o insiemi di funzionamenti alternativi”.
A ciò aggiungerei le differenze che attraversano ciascuno di noi; il nostro essere un po’ tutti meticci, per così dire.
Qui giunti, “il rompicapo dell’estensione” e La sfida di Babele paiono assai più vicini. Affinchè il confronto aperto nello spazio pubblico si realizzi davvero, occorre che ciascun membro di qualsivoglia comunità o gruppo – etnico, religioso, culturale ecc. – possa in ogni istante scegliere “tra funzionamenti o insiemi di funzionamenti alternativi”. La comunità non dovrebbe intrappolare il singolo, bensì fornirgli chance, opportunità, prospettive; dovrebbe arricchirlo, aggiungendo qualcosa nella sua vita. Dovrebbe accrescerne i margini di libertà.
Gli individui, sia dei gruppi presenti nelle varie costellazioni nazionali sia di quelli dell’arena globale, dovrebbero essere messi sempre più in condizione di tradurre i beni di cui dispongono in “funzionamenti” e di passare, per così dire, da un insieme all’altro di funzionamenti. Come dire: cittadini del mondo in grado di realizzare il proprio progetto di vita in questa o in quella comunità.

(Tratto da Riforma, settimanale delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi – Numero 19, 17 maggio 2013)