Le prossime settimane e mesi ci diranno se il repentino aggregarsi “unitario” della direzione del Pd metterà il governo presieduto da Matteo Renzi al riparo dalle dinamiche di opinione e di partito, che hanno messo in crisi e poi liquidato il governo presieduto da Enrico Letta. Il “ritorno della politica” sugli scudi della tattica non ha mutato la maggioranza che lo sostiene in Parlamento, e potrebbe non saziare nel Pd l’ansia di recuperare la fiducia e i rapporti con la sua constituency allo sbando: l’ansia che ha già portato alla scissione del Pdl, sull’altro versante delle “larghe intese”.
Le difficoltà con cui esso deve misurarsi sono quelle sperimentate dal governo precedente e la sua principale risorsa restano sempre gli “annunci”: di intenzioni, di decreti, di “svolte”, di “choc” – parole, immagini, eventi, avvii di procedimenti che continuano a dettare l’agenda dei nostri media e concentrano sul governo, ogni giorno, quasi ad ogni ora, l’attenzione e le attese. Facendone, insieme, il bersaglio delle urgenze, dei bisogni, dei ritardi, delle mancanze, delle insufficienze, che la cronaca e i dati della crisi rilanciano di continuo: fino ai prossimi “incidenti di percorso” e ai prossimi sondaggi di opinioni ed intenzioni di voto, in un movimento circolare e convergente di flussi mediatici che può finire per demolirlo.
Rispetto a questa giostra, il nuovo premier sembra aver predisposto almeno un paio di contromisure: una nel rapporto con i media; l’altra, di sostanza, nella squadra di governo. La scelta di visitare ogni settimana una scuola e/o una realtà produttiva in questa o quella città o provincia, oltre ad attirare sulla sua persona il rapporto con il “paese reale” (non con l’Europa, non con i mercati finanziari) su cui si focalizza la sua iniziativa, aggiunge all’agenda ordinaria un altro evento a cadenza fissa, cerca di stabilire un punto fermo e ricorrente, nel bailamme imprevedibile di un flusso esposto (come si è visto) a tutti i venti.
Un impegno quasi enciclopedico, se lo si considera nella prospettiva del 2018, che potrebbe nutrire di immagini gentili una legislatura che sani le ferite e colmi le voragini aperte dalla “mala politica” nella credibilità ed efficienza delle istituzioni; e dia nuova linfa ai rapporti fra la vita ordinaria, quotidiana, dei cittadini e l’attenzione e la responsabilità dei pubblici amministratori, a cominciare, esemplarmente, dal primo ministro. Ma fin da subito una “produzione di eventi” che può tornare utile già nelle prime settimane di attività del nuovo governo, e a seguire in quelle della campagna per le elezioni europee: scadenza ormai imminente, ed occasione di una prima verifica, nelle urne, dell’efficacia di un’accelerazione così traumatica in termini di risultati elettorali.
Non sarebbe la prima volta, negli ultimi decenni dell’eterna “emergenza” italiana, che – sia pure in una fase particolare come l’attuale – la comunicazione politica assuma i caratteri della campagna di promozione e di propaganda permanente di un leader politico. Mentre sarebbe una novità che il confronto fra i partiti e l’orizzonte mentale della comunicazione mediale siano centrati sui protagonisti e i luoghi dell’educazione e della formazione, con le loro ricchezze e i loro problemi, mentre si rinnova il Parlamento europeo e si avvia, si spera, una fase davvero nuova della costruzione e del senso della prospettiva unitaria di istituzioni, che hanno quanto meno trascurato, a parte l’aggiornamento cartaceo, gli obiettivi che si erano dati con la Strategia Lisbona 2020.
Un qualche contenimento delle divergenze interne, se non delle spinte divaricanti la maggioranza e lo stesso Pd, potrebbe derivare da quella che appare la novità più significativa della nuova compagine governativa, che vede, fra i ministri, un alto esponente dell’organizzazione nazionale degli industriali e il presidente della Lega delle Cooperative: qualcosa di inedito, anche rispetto alla prima Repubblica, che sembra venire a chiudere la famosa querelle degli “interpreti” e dei “rappresentanti” che tanto ha agitato i giorni, le settimane e i mesi dei ministri del governo “tecnico”, e anche di quello “delle larghe intese”: i quali, fattisi interpreti, nel loro ruolo, dei bisogni del paese e dei più generali interessi della società e dell’economia, nonché – inaudito! – delle generazioni future, si trovarono a fare i conti con i più vari rappresentanti delle organizzazioni degli imprenditori e dei lavoratori, eretti a paladini del “paese reale” e dei “veri” interessi economici e sociali di ceti e categorie di “popolo”.
Risolta con la presenza fisica di questi rappresentanti del più alto livello la questione della legittimazione degli interpreti, la strada sembra spianata per accordi diretti e transazioni nelle più varie materie di rilievo economico e sociale, nutriti dalle competenze ed esperienze maturate nella gestione di quegli interessi. Una prospettiva che potrebbe rendere inquieti quanti hanno presente, per esempio, la vicenda dell’Ilva di Taranto o le 46-47 forme contrattuali della precarietà che trattengono sulla soglia del mercato del lavoro, da decenni, milioni di giovani, e non più giovani, italiani. Ma con due possibili conseguenze non trascurabili per il governo Renzi: che potrebbero ridursi drasticamente le fonti di alimentazione del filibustering degli emendamenti ai decreti e alle leggi di iniziativa governativa tramite gli stessi partiti della maggioranza, potendo i due ministri canalizzare e filtrare essi stessi inquietudini e proposte dei più vari settori delle imprese e del lavoro; e si otterrebbe, in tal modo, una maggiore compattezza nel rapporto fra il premier e il suo stesso partito, impegnati nell’azione di recupero dei rapporti fiduciari con i loro interlocutori tradizionali, se non anche con altri segmenti dell’opinione e dell’elettorato (sulla “destra” come sulla “sinistra”) nei più vari contesti territoriali e a livello nazionale.
Nella fase in cui l’ebbrezza dell’accelerazione e la narrazione di un prossimo futuro necessario e “diverso” fanno premio sulla considerazione di conseguenze forse volute e forse no, di assenze o di presenze in una scelta di ministri e di altri ruoli di governo che si annunciava siderale, di riguardi dissimulati verso i poteri nostrani che tutto ciò hanno reso oggi possibile, siamo anche noi ad apprezzare lo stile che riclassifica a dettagli e contrattempi solfe ormai antiche, trascurabili, nella rincorsa al tempo fin qui perduto e alle urgenze che non attendono.
Memorandum. L’ambasciatore del Kazakistan che mette in fila il personale e dirige a Roma le operazioni della “polizia di stato” richiamava alla mente, nove mesi fa, le vicende dell’Italiana in Algeri (testo di Angelo Anelli, musica di Gioachino Rossini): con gli italiani, anche allora (1813), in ruoli incongrui e alle prese con padroni esotici: vicende di fantasia pre-unitaria che una qualche lettura dei libretti d’opera avrebbe fatto risuonare nelle teste di quei funzionari, pur alle viste di un Mustafà senza turbante e caffetano. Oggi, nella Repubblica italiana, il ministro degli Interni, che non si era accorto di nulla, è ancora lì, mentre è stato rimosso il ministro degli Esteri, che di quella faccenda aveva fatto un caso.
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