Il capitalismo è un fenomeno di difficile definizione, per le molte implicazioni sul piano storico, politico e sociale. La sua definizione comunemente accettata si ha con la Rivoluzione Industriale, e gli economisti che concorrono a formularla lo definiscono come modo efficiente di organizzare la produzione, la distribuzione e il consumo dei beni, fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Karl Marx sostiene che il capitalismo, anche se efficiente, è iniquo sul piano sociale, e pertanto insostenibile. Max Weber attribuisce al capitalismo un significato culturale e sociale legato al pensiero religioso protestante, che prescrive per gli uomini una vita proba, finalizzata a massimizzare il risparmio attraverso la rinuncia al consumo, propensioni indispensabili all’accumulazione. Secondo Weber, successivamente e autonomamente dalla religione, tali propensioni si perpetuano indipendentemente dalle volontà dei singoli, trasformandosi in una forma di ascesi resa necessaria dalla competizione.
Per John Maynard Keynes il capitalismo è una grande conquista dell’uomo, esposta però al rischio di un’auto-estinzione; esso infatti, per sopravvivere, necessita che le istituzioni in cui si incorpora siano di continuo regolate al fine di eliminarne gli effetti indesiderati sul piano sociale. Anche per Karl Polanyi è un prodotto della società umana, però storicamente datato, e non un prolungamento della naturale tendenza umana ad arricchirsi, come vuole il pensiero liberale. Quest’ultima visione è largamente accolta nel dibattito attuale sui limiti del capitalismo, inteso sia come modo di produzione che come ideologia sociale tesa a giustificarlo.
Rispetto all’origine del capitalismo come modo di produzione si discute molto sul ruolo svolto dalla formazione delle pre-condizioni che ne hanno reso possibile l’avvento. Paolo Prodi e Giacomo Todeschini mostrano come i dibattiti teologici del mondo cattolico su usura, distinzione tra capitale sterile e capitale produttivo, giusto prezzo, bene comune ed altro ancora, contribuiscono a costruire il quadro etico e normativo che ha fatto del mercato un’istituzione affidabile e stabile. Il sociologo francese Gérard Delille, in L’economia di Dio, di recente pubblicazione, integra la discussione sulla nascita del capitalismo individuando l’impatto che sulla sua affermazione hanno avuto i differenti modi in cui le tre religioni monoteiste hanno definito e regolato i rapporti parentali.
Secondo il sociologo francese la regolazione della struttura familiare e parentale nell’antichità era formulata per costruire patrimoni che le famiglie intendevano conservare al loro interno, bloccandone la circolazione. Questo sistema è rimasto anche dopo la rivoluzione industriale; ne sono prova li maggiorascato, il “maso chiuso” ed altre istituzioni simili.
Indubbiamente prima della rivoluzione industriale le istituzioni che limitavano la circolazione dei patrimoni favorivano l’accumulazione di rilevanti ricchezze in poche famiglie; il maggiorasco, del quale si conservano ancora oggi alcuni “residui storici” come ad esempio il maso chiuso, era lo strumento giuridico mediante il quale i nuclei familiari tramandavano ai discendenti i propri patrimoni. Si istituiva erede il proprio figlio maschio e primogenito, o in mancanza il proprio fratello, perché conservasse il patrimonio ereditario al fine di lasciarlo alla propria morte al proprio figlio, che a sua volta doveva trasmetterlo al suo discendente diretto, e così via.
I dibattiti e le istituzioni medioevali sulla gestione e sull’uso delle risorse hanno certamente contribuito a creare il quadro etico che ha reso affidabile e stabile il mercato e a realizzare la concentrazione di cospicui patrimoni nelle mani di pochi. Il quadro etico e la concentrazione patrimoniale, però, prescindendo dall’interpretazione weberiana, non hanno contribuito alla creazione dell’ethos del capitalismo: questo esprime non solo un ordine morale, ma anche un retaggio di competenza e di conoscenza.
L’ethos proprio del capitalismo non evoca solo l’auri sacra fames antica quanto l’uomo: esso evoca anche una particolare disposizione dell’uomo rispetto alle risorse in sé e per sé considerate, prescindendo quindi da ogni riflessione valoriale. Ciò significa che l’ethos capitalista non implica solo conservazione e concentrazione della ricchezza in poche mani: implica anche una sua continua espansione, facendo di questa una specifica vocazione professionale.
Lo “spirito” del capitalista ad espandere di continuo le risorse delle quali dispone è giustificato sul piano etimologico dalla derivazione della parola capitalismo dal sostantivo latino caput (testa, inizio, ecc.). Il termine caput sta appunto ad indicare che l’espansione del capitale deriva unicamente dallo svolgersi di un processo che ha come “testa” o “inizio” la destinazione di ciò che resta di ogni produzione, al netto della reintegrazione di quanto si è investito per ottenerla, al reinvestimento, finalizzato al continuo rafforzamento del processo stesso.
E’ questo lo “spirito-propensione” proprio del capitalismo, e non una qualsiasi propensione ad accumulare fuori dalla logica implicita nell’attività di reinvestimento. Dopo la rivoluzione industriale l’affermazione della propensione ad aumentare di continuo il capitale è valsa a sostituire le vecchie istituzioni del tardo Medioevo con nuove istituzioni, quali ad esempio le “autorità antitrust” poste a garanzia della contendibilità delle risorse nei confronti dei vecchi proprietari, e le public companies per la diffusione della proprietà: tutte poste a presidio dell’eliminazione degli impedimenti alla circolazione delle risorse, al fine di favorire l’aspirazione del massimo numero di soggetti a divenire proprietari di un patrimonio per accrescerlo attraverso il reinvestimento e non attraverso la sola conservazione-concentrazione delle risorse ereditate dal passato.
Gli economisti che hanno reso rigorosa la spiegazione delle logica di funzionamento del capitalismo inteso come modo di produzione sono stati quindi affiancati da quelli che hanno inteso mettere il capitalismo e il suo “spirito” a disposizione degli uomini per liberarli dal bisogno attraverso la combinazione dell’efficienza con la giustizia sociale. L’intento è stato però frustrato dal prevalere di coloro che hanno avuto interesse ad assolutizzare la libertà posta a fondamento del mercato, prescindendo da ogni considerazione sociale.
Costoro, spesso con azioni illegali sistemiche sotto il velo della libertà, sono stati gli artefici della regressione dello spirito del capitalismo al suo contrario, ovvero all’auri sacra fames. Oggi perciò occorre ricuperare lo spirito originario del modo di produzione capitalista per finalizzarlo alla realizzazione di un mondo futuro migliore di quello attuale, prima che i rudi capitalisti attuali lo distruggano in nome di una crescita senza limiti e regole per una presunta civiltà del benessere.